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La rivolta di Haymarket e la strage di Portella della Ginestra

Ieri è stato il 1° maggio 2024 e questa data, ogni anno, segna una ricorrenza particolare: la Festa del lavoro o Festa dei lavoratori.

Una festività all’insegna del riposo e dello svago, in onore degli operai e dei braccianti che in passato si sono battuti per ottenere condizioni lavorative degne di tale nome.

Ma andiamo con ordine.

I fatti di cui sto parlando non sono semplicemente delle rivolte “casuali”, sparse in giro, qua e là, tutt’altro.

L’istituzione del 1° maggio come Festa dei lavoratori, infatti, affonda le proprie radici in un evento di cronaca, purtroppo, piuttosto cruento, conosciuto come la rivolta di Haymarket, Haymarket Affair o addirittura il massacro di Haymarket.

Le origini di questo drammatico avvenimento, successo a Chicago (USA), sono datate, per l’appunto, 1° maggio del 1886: circa 50 mila lavoratori scesero in piazza per protestare contro il pessimo stato igienico sanitario dei luoghi di lavoro e soprattutto per rivendicare un giusto orario di otto ore. Fino a poco più del secolo scorso, nonostante gli Stati Uniti avessero già dei sindacati forti e piuttosto organizzati, avendo un processo di industrializzazione ormai avanzato, gli orari erano letteralmente invivibili: sedici ore occupati nelle varie mansioni, senza alcuna cura dell’ambiente in cui i braccianti svolgevano i loro compiti, con la conseguente diffusione di malattie e un alto tasso di mortalità, con paghe da fame.

Dunque, quel giorno, venne proclamato sciopero, per reclamare la concessione di tutti questi diritti. Cortei, comizi, disordini di ogni sorta e provocazioni da parte delle forze di polizia furono i protagonisti indiscussi.

Due giorni dopo, in Haymarket Square (la piazza di Haymarket), ebbe luogo un presidio con il medesimo scopo, tutti riuniti davanti alla fabbrica di mietitrebbia McCormick, con alcuni dei maggiori esponenti del movimento operaio pronti al posizionamento dei primi mattoni, che avrebbero costituito una nuova rivoluzione sociale.

Per un motivo “ignoto”, al termine della suddetta manifestazione, la polizia cominciò dapprima a caricare i manifestanti in piazza, per poi finire con lo sparare sulla folla, provocando quattro morti e centinaia di feriti.

Il movimento operaio e anarchico non rimase in silenzio e il giorno dopo indisse un altro comizio sul luogo del misfatto. Nonostante la tensione evidente, comunque, i manifestanti e i leader mantennero un atteggiamento civile, ordinato, tranquillo. In questo contesto, fu nuovamente la polizia a cominciare a caricare i presenti.

Nella confusione, scoppiò una bomba. Non si seppe mai di chi fu la mano che l’aveva lanciata, ma si presuppone che fosse quella di un provocatore. (Che supposizione sagace…)

Comunque, l’ordigno causò la morte dell’agente di polizia Mathias J. Degan. Per questo motivo, le forze dell’ordine si sentirono totalmente legittimate ad aprire il fuoco, comportando diverse morti, nonché una campagna repressiva e diffamatoria nei confronti di sindacalisti e operai.

Partì, quindi, una caccia all’uomo, per scovare l’attentatore, conosciuta anche come “caccia al rosso”. Vennero accusati ingiustamente gli otto anarchici di maggior spicco del movimento: George Engel, August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe.

Il processo contro gli otto imputati cominciò il 21 giugno dello stesso anno, ma fu orchestrato a regola d’arte a loro sfavore, con l’ausilio di testimonianze false, ottenute anche grazie al versamento di grosse somme di denaro (corruzione docet). La stampa, poi, non aiutava di certo, visti i continui articoli che istigavano alla provocazione.

Fu così che il 19 agosto, sfortunatamente, sette degli imputati vennero condannati a morte tramite impiccagione. La sentenza venne eseguita l’11 novembre del 1887, ma furono solo Fischer, Spies, Engel e Parsons a subire questa sorte. Lingg purtroppo si suicidò in carcere il giorno prima dell’esecuzione, Fielden e Schwab sfuggirono alla forca perché ottennero, invece, l’ergastolo e successivamente la grazia, mentre Neebe venne condannato a 15 anni e graziato anche lui in seguito.

Questi caduti, sono oggi conosciuti come i martiri di Chicago. E nonostante la terribile sorte, tutti e quattro si mostrarono al cappio con un sorriso in volto, inneggiando con le loro ultime parole all’anarchia e rivolgendo frasi d’amore alle proprie mogli e ai propri figli.

Qui di seguito, le esclamazioni di ognuno prima di morire:

 

  • Spies: «Salute, verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che oggi soffocate con la morte!»
  • Fischer: «Hoc die Anarchie! (Viva l’anarchia!)»
  • Engel: «Urrà per l’anarchia!»
  • Parsons: «Lasciate che si senta la voce del popolo!»

Ecco dunque il motivo dell’istituzione di questa festività proprio durante il 1° maggio, nonostante la ricorrenza venne spostata al 21 aprile (il Natale di Roma, il giorno in cui presumibilmente nacque la capitale) durante il periodo fascista in Italia.

Eppure, è solo nel nostro Paese e in qualche altro che la Festa dei lavoratori cade in questa data specifica (indetta intorno al 1890).

Negli Stati Uniti, infatti, si celebra il 1° settembre, ovvero il giorno in cui i lavoratori cominciarono a ribellarsi. Se proprio vogliamo essere più specifici, tuttavia, non furono gli americani i primi al mondo a rivendicare un orario di lavoro decente: questo primato spetta agli australiani, che inventarono lo slogan “Otto ore di lavoro, otto di svago e otto per dormire”, nel 1885.

In Inghilterra e in Grecia, la Festa del lavoro ha luogo il primo lunedì di maggio e porta il nome di May Day, abbinato per lo più alle antiche tradizioni della festa di primavera. Tradizione che rimane viva, comunque, anche nella nostrana regione Toscana, dove tra il 30 aprile e il 1° maggio avviene un’altra ricorrenza denominata “cantamaggio”, in cui gli artisti e i musicisti si aggirano per le case cantando alla primavera.

Malauguratamente, in Sicilia, il 1° maggio segna anche l’anniversario di un altro fatto di sangue: la strage di Portella della Ginestra.

Avvenuto nei pressi di Palermo nel 1947, più precisamente a Piana dell’Albanese, il massacro fu di stampo politico-mafioso, eseguito con tutta probabilità dalla banda del brigante e terrorista Salvatore Giuliano (noto anche come “Il bandito Giuliano”, “Bannera”, “Re di Montelepre” o “Turiddu”). Quel giorno, duemila lavoratori, di cui buona parte agricoltori, si riunirono a Piana dell’Albanese per protestare contro i latifondisti a favore dell’occupazione delle terre incolte.

Improvvisamente, durante il comizio, partirono raffiche di mitra dal monte Pelavet, che si riversarono sulla folla, uccidendo undici persone, tra cui tre bambini.

Le motivazioni? Avversione verso i comunisti e la volontà da parte delle bande mafiose di mantenere i vecchi equilibri.

Ieri è stata una giornata di riposo, dove ci si è potuti prendere una pausa dai frenetici ritmi di lavoro (chi più, chi meno). Ma è una giornata che serve anche a ricordare: ricordare che se possiamo oziare per un giorno, se possiamo tornare a casa e avere una vita privata e sociale oltre al lavoro, se possiamo dire di esercitare la nostra professione in maniera sicura, lo dobbiamo al sangue versato di persone che hanno lottato affinché potessimo giungere a questo status.

Uno status che, disgraziatamente, non è stato raggiunto da tutti gli Stati nel mondo, anzi: secondo i dati forniti nel 2022 dalla Confederazione internazionale dei sindacati (ITUC), l’87% dei Paesi ha violato il diritto di sciopero dei propri lavoratori. Medio Oriente, Nord Africa e USA stessi non se la passano affatto bene in materia, risultando tra i peggiori luoghi in tutto il globo per quanto riguarda la tutela dei diritti dei lavoratori.

Inoltre, l’Associazione Società Informazione Onlus riporta che ogni anno sono più di 2 milioni le persone che perdono la vita a causa di incidenti e malattie provocati dal lavoro.

E l’Italia non è esente da questo elenco: dall’inizio del 2024 sono stati contati ben 119 decessi, un numero davvero allarmante.

Non possiamo permetterci, dunque, di poter dire che “siamo arrivati”: c’è ancora molto, tanto da migliorare, grandi ostacoli da superare, parecchie misure da prendere, oltre all’innalzamento dei salari e del tasso di occupazione che, in questo momento in Italia, è un tasto dolente. Ma se possiamo permetterci di pensarlo e di agire per un futuro migliore, se possiamo permetterci di dire che sì, abbiamo ottenuto “qualcosa”, lo dobbiamo ai caduti. Rammentiamo, tra l’altro, il caporalato, con orari di lavoro massacranti, mancanza di contributi, violazione dei minimi salariali, tenendo presente le infiltrazioni mafiose che si basano proprio sull’illegalità del lavoro, sfruttando soprattutto i migranti. La parola “caporalato” deriva da “caporale”, che nell’Italia meridionale è la persona incaricata a cercare operai e braccianti agricoli, per farli lavorare abusivamente, senza diritti, controlli e assicurazioni. Quindi, conveniamo tutti che il termine indica un’attività criminale.

Dunque, nonostante ciò, possiamo comunque fieramente girarci verso il passato, ringraziare coloro che si sono battuti per noi e continuare però l’opera.

E concludo con una frase del nostro ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini (1896 – 1990), che si può ricollegare non solo alla nostra nazione, ma a qualsiasi nazione nel mondo: “Io credo nel popolo italiano. È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.”.

Scritto da Camilla Marino

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