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Il loop delle guerre: storia di un genocidio suffragato dallo stupro

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Siamo nel 2024, un anno segnato da un numero troppo considerevole di guerre e conflitti internazionali, in cui anche noi italiani siamo sempre più coinvolti. Questo, però, è anche l’anno che segna il triste anniversario di un evento estremamente sanguinoso, uno degli atti di violenza più cruenti del XX secolo.

Infatti, sono passati 30 anni dal genocidio in Ruanda. E oggi sono qui non solo per illustrarvi per sommi capi cosa successe all’epoca, ma anche per riflettere sul tanto dibattuto concetto di genocidio.

Innanzitutto, delineiamo gli accadimenti occorsi nello Stato dell’Africa Orientale, oggi una Repubblica.

Durante il periodo coloniale della seconda metà dell’Ottocento, per essere più precisi dal 1884 al 1919, questo territorio faceva parte della Deutsch-Ostafrika, ovvero una colonia dell’Impero tedesco che è traducibile in italiano come Africa Orientale Tedesca.

Le radici del massacro avuto luogo nel 1994, trovano le proprie basi proprio con il passaggio sotto il dominio Belga, conclusosi nel 1962, quando il Ruanda chiese l’indipendenza.

Ma cosa successe nello specifico?

Dovete sapere che la popolazione di questo Stato è composta principalmente da tre etnie: gli Hutu, i Twa e i Tutsi (questi ultimi erano anche conosciuti con un altro nome, i Watussi, sui quali è stata composta la famosa e allegra canzoncina firmata da Edoardo Vianello, nel 1998… oggi sarebbe considerato, a torto, un testo razzista, perché contiene la “parolaccia neg*ri”… Il no sense del politically correct).

Il primo gruppo, conosciuto anche come Abahutu in lingua kirundi e kinyarwanda (idiomi del Ruanda), rappresenta l’85% della popolazione, quindi è il più numeroso; il secondo, noto nella lingua locale come Abatwa, è una popolazione pigmea, tra le comunità autoctone più antiche, tanto da far parte dell’Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli Non Rappresentati (UNPO); il terzo gruppo, gli Abatutsi in kirundi, sono a loro volta suddivisi in due sottogruppi, ovvero gli Abanyuruguru e gli Abahima, rispettivamente una classe sociale più alta e regale che poteva far sposare le proprie figlie con il re, e una classe sociale più bassa e umile a cui erano imposti una serie di divieti.

I Tutsi, dunque, nonostante fossero in minoranza rispetto agli Hutu, risultavano essere la fetta demografica più aristocratica, con potere politico, controllo del bestiame e delle terre (all’epoca si parlava di Regno del Ruanda, sul cui trono sedeva il clan Tutsi Nyginya), mentre gli Hutu erano semplici agricoltori e responsabili del culto religioso. Tanto per intenderci, entrambi i popoli seguivano la fede cristiana.

Come avrete evinto, dunque, vi era già una differenziazione sociale, ma questa venne marcata e si evolvé (ricordiamo che la coniugazione verbale può essere anche “evolvette” ed “evolse”) a differenza etnica proprio per colpa del colonialismo europeo, soprattutto con l’arrivo del Belgio.

Difatti, una volta entrati in contatto con i Tutsi al potere, limitarono ulteriormente gli Hutu, togliendogli oltretutto qualunque autorità cerimoniale.

Sfruttando una narrazione storica e liturgica alquanto fallace e ingannevole, coadiuvata dall’antropologia razzista, convinsero i Tutsi di essere a tutti gli effetti una razza superiore, simile a quella caucasica, imparentata alla lontana con gli europei e facente parte dei popoli Camiti. I Camiti (o Kamiti o Hamiti), secondo la Bibbia, sarebbero i discendenti di Cam, figlio di Noè (sì, quello che ha costruito la grande arca).

La “prova”, per così dire, che “confermava” tale tesi era basata su una questione fisiognomica, messa ancora più in risalto con l’introduzione delle carte d’identità ruandesi nel 1930, che non solo definivano lo status sociale di un individuo, ma anche le sue caratteristiche somatiche. I Twa sono pigmei, quindi di bassa statura, con naso schiacciato, capelli crespi e un cranio tendente alla brachicefalia (quindi schiacciato sulla parte posteriore); gli Hutu sono di media statura; i Tutsi, come dice la canzone, sono “gli altissimi neg**ri”, con lineamenti del volto più sottili.

E uno, più uno, più uno, l’astio tra le due etnie crebbe sempre di più e fu così che nel 1959 gli Hutu si rivoltarono contro la monarchia Tutsi e chiesero l’indipendenza dal Belgio nel ’62, anno in cui avvenne il referendum che trasformò il Ruanda in una repubblica e che segnò il suo ingresso all’ONU.

Purtroppo, questo fu lo sparo del via per una serie di massacri violentissimi tra le due popolazioni, che durarono per decenni, con un altissimo numero di vittime sia da una parte che dall’altra.

Ma quello che viene considerato ai giorni nostri come l’effettivo genocidio, ebbe inizio con l’uccisione del Presidente e dittatore Hutu Juvénal Habyarimana, assassinato da un missile terra-aria di origine ignota che colpì il suo aereo il 6 aprile 1994, mentre tornava da un colloquio di pace con il Presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira. Un colloquio che avrebbe dovuto porre fine alle continue guerre civili tra i due popoli.

Fu il caos! Gli Hutu, per vendicarsi del tragico fatto, cominciarono un vero e proprio sterminio dei Tutsi, nonché di tutti gli Hutu moderatori.

Fu il caos! Gli Hutu, per vendicarsi del tragico fatto, cominciarono un vero e proprio sterminio dei Tutsi, nonché di tutti gli Hutu moderatori.

La radio estremista RTLM (Radio Télévision Libre des Mille Collines), fu colpevole di aver istigato l’odio razziale, invitando la popolazione a “seviziare e uccidere gli “scarafaggi” Tutsi”. Invero, i Tutsi venivano soprannominati Inyenzi, che in kinyarwanda significa proprio “scarafaggi”.

E gli innumerevoli omicidi e torture perpetrati dagli Hutu furono tutti a dir poco brutali, con l’ausilio di fucili, machete, mazze chiodate e altre terribili armi.

Ma per loro non era sufficiente ammazzarli: mezzo milione di donne e bambini vennero violentati e/o mutilati sessualmente. Una sopravvissuta a questo orrore, che vuole rimanere anonima, racconta: “Un poliziotto mi ha trovata, ha infilato il suo dito nella mia ferita sulla mia testa e mi ha portata in una casa, dove molti di loro mi hanno stuprata.” (fonte, RaiNews)

Fu durante quell’incubo che quella donna concepì un figlio. Ma non è l’unica: sono circa diecimila i bambini nati da quelle violenze.

L’atto in generale fu così terribile che, per la prima volta nella storia, l’ICTR (Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda) ha condannato quegli stupri come armi da guerra, classificandoli come stupri genocidi.

Infatti, l’ICTR ha spiegato la situazione in questo modo: “la violenza sessuale fu parte integrale del processo di distruzione […] del gruppo Tutsi nel suo complesso. […] distruzione dello spirito, della volontà di vivere, e della vita stessa.”. A prova di ciò, il fatto che un gran numero di violentatori era affetto da HIV e AIDS e stuprarono donne e bambini con il preciso intento di infettarli: “Sarebbero morte lentamente e di una morte estenuante per AIDS.”.

Durante quell’orrore, durato circa cento giorni, conclusosi il 15 luglio dello stesso anno, noi italiani ci siamo potuti vantare della presenza di Pierantonio Costa, il Console Onorario nostrano a Kigali, la capitale.

Grazie a lui, più di 2000 persone, compresi 375 bambini, trovarono la salvezza scappando, inseriti in una lista di “protetti dall’Italia”.

Per questo, venne candidato al Premio Nobel per la Pace nel 2011.

In questo scenario, c’è un particolare degno di nota: il ruolo della Francia. Infatti, la nazione europea voleva porre fine al conflitto o quantomeno smorzarne gli animi attraverso un’operazione militare denominata Operazione Tourquoise (per maggiori approfondimenti in merito, cliccate qui.). Ciononostante, non solo l’intervento delle forze armate non fu utile, ma sarebbe emerso, da una recente indagine avviata dallo stesso attuale Presidente francese Macron (indagine visualizzabile nel rapporto “La France, le Rwanda et le genocide de Tutsi”), che il governo avesse avuto rapporti segreti con gli Hutu, non facilitando dunque la fine della guerra. In ogni caso, l’intervento da parte dello Stato è ancora oggi dibattuto, ragion per cui non si può formalizzare alcuna accusa, così come non si può negare la sua incapacità nella gestione del disastro.

Il massacro ebbe fine con l’occupazione della capitale da parte dei Tutsi facenti parte dei Fronte Patriottico Ruandese, ancora oggi in attività e guidato da Paul Kagame.

Il numero delle vittime è incerto e sembra salire di anno in anno, innumerevoli sono le ossa che riemergono dalle fosse comuni: finora si contano circa un milione di vite strappate.

Sono passati 30 anni precisi da quella tragedia e non vi sono parole per descriverla. Osservando le testimonianze di vittime e carnefici riprese nei giorni scorsi per la memoria, non ho potuto fare altro che stupirmi di fronte a una tale gestione di questo trauma: molte di queste vittime hanno deciso di seguire la strada del perdono e diversi carnefici continuano a implorarlo, dichiarando di aver subìto, all’epoca, un lavaggio del cervello.

I racconti sono a dir poco da brividi e sofferti: donne che descrivono come i propri figli siano stati letteralmente fatti a pezzi a colpi di machete davanti a loro, le percosse che hanno lasciato segni e malformazioni indelebili, visibilissime ancora oggi.

Eppure, da questo fatto, sembrerà forse una facile impresa classificare e condannare un genocidio: invece, sappiate che non è affatto così.

Partiamo dell’etimologia del termine.

La parola “genocidio” venne coniata nel 1942 dal giurista in diritto nazionale Raphael Lemkin, ebreo polacco. Egli, riuscito a sfuggire all’Olocausto, considerato universalmente come il peggior genocidio a memoria dell’Uomo, e rifugiatosi negli Stati Uniti, pubblicò un saggio intitolato “Axis Rule in Occupied Europe”, nel 1944. È in questo volume che compare per la prima volta questa espressione, formata dall’unione della parola greca genos (che significa “tribù” o “razza”) e cide (caedere equivale a “uccidere”).

In realtà, questa non era la prima e unica locuzione che definisse, citando Lemkin, “la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico”, esisteva anche “völkermord”, ma Lemkin non volle alcuna rivendicazione da parte di nessun gruppo, per questo motivo coniò la parola “genocidio”.

Terminologia che è stata a dir poco sfruttata dai mass media, per descrivere una qualsivoglia forma di guerriglia intercorsa tra due popolazioni.

Eppure, secondo la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (istituita il 9 dicembre 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite), il genocidio ha una definizione ben precisa: “[…] per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) sottoporre  deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure mirate a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

È molto chiaro e preciso, letto su carta, ma nel pratico?

In effetti, accusare il singolo individuo di genocidio, risulta assai complesso, data proprio la premessa: esso può essere considerato tale solo ed esclusivamente se i crimini sono perpetrati con l’intento di sterminare un determinato gruppo. È estremamente arduo accusare il singolo in questo modo, dunque egli viene condannato per altri reati (omicidio, stupro e via dicendo).

Inoltre, molti atti di guerriglia vengono confusi come atti di sterminio quando, in realtà, la motivazione dietro rappresaglie e uccisioni, sono ben altre, legate più al potere economico e/o territoriale.

Un po’ come sta avvenendo tra Russia e Ucraina: la controversia sulla locuzione di genocidio nei confronti di Putin, che respinge ogni tipo di accusa, o come Israele e Gaza.

“L’intento è l’aspetto più difficile da stabilire… la distruzione culturale non è sufficiente, così come non lo è l’intenzione di disperdere semplicemente un gruppo.”.

Per l’appunto, un genocidio non va confuso con il concetto di “conflitto etnico”, poiché, sì, è a tutti gli effetti una contesa tra due o più gruppi etnici, ma la motivazione dietro a tale contesa non promuove lo sterminio di quella data etnia, quanto invece questioni di politica, di territorio, di natura economica, sociale o religiosa.

Il genocidio resta un crimine internazionale, alla pari di atti di terrorismo, tortura, crimini di guerra e crimini contro l’umanità e di aggressione, risultando dunque punibile dalla giurisdizione internazionale e dai tribunali sovranazionali. L’ONU, tuttavia, interviene solo qualora la nazione coinvolta non abbia adempiuto all’attuazione della condanna.

Oltre all’Olocausto e al massacro in Ruanda, vengono universalmente catalogati come genocidi:

  • la guerra in Bosnia ed Erzegovina, avvenuta tra il 1992 e il 1995, con i sanguinosi delitti delle guerre jugoslave. Più di 8000 bosgnacchi, ovvero i musulmani bosniaci, vennero uccisi durante il massacro di Srebrenica, città situata nella Bosnia orientale. L’atto venne commesso dall’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, sotto il comando del generale Ratko Mladić, e dal gruppo paramilitare degli “Scorpioni”.
  • il genocidio cambogiano, che ha avuto luogo tra il 1975 e il 1979, dove i khmer rossi fecero una strage tra le minoranze etniche e religiose.
  • il genocidio armeno, eseguito dall’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916, con un milione e mezzo di morti. La giornata di commemorazione degli armeni è il 24 aprile e questa etnia usa, per descrivere questo atroce fatto storico, l’espressione “Mec Yeqern”, che significa “grande crimine”.

Ognuno di questi accadimenti terribili (anche se “terribile” è una parola, a mio avviso, povera, troppo debole, per parlare di queste pagine oscure della storia) è degno di un approfondimento adeguato, che in questo articolo risulterebbe, al momento, troppo lungo e fuori contesto. Oggi vi ho ricordato il Ruanda, nello specifico. Ma vi parlerò sicuramente di ognuno di questi agghiaccianti conflitti in futuro.

A questo punto, non possiamo fare altro che rammentare questo orrendo fatto, contemplando in silenzio i poveri resti dei caduti, messi in mostra per non dimenticare in diversi siti commemorativi situati in Ruanda. Uno dei luoghi di pellegrinaggio più conosciuti è la chiesa di Nyamata, poco fuori dalla capitale Kigali, nel distretto di Bugesera, dove migliaia di persone tentarono di rifugiarsi al tempo.

 

Vittime di che cosa? Dell’ignoranza, dell’odio, della sete di potere e della malvagità.

Perché sono questi i veri fattori che si nascondono (non così celati) dietro a questi atti raccapriccianti.

Associo questo abominevole avvenimento alle parole di Gianni Rodari, che ci insegnavano da bambini: “Ci sono cose da non fare mai / né di giorno né di notte, / né per mare né per terra: / per esempio, la guerra.”

 

Crediti
Foto: Archivio Avvenire 
Foto: AFP
Foto: New York Times
Foto: Gilles Peres/Magnum Photo
Foto: James Nactway
Foto: Sebastião Salgado
Foto:Getty Images
Foto: Doublearc
Foto: Africa ExPress
Foto: Ledevoir
Foto: Rawling, Cecil Godfrey, 1870- Harrison, Herbert Spencer, n. 1872 (Biblioteca Università della California)
Foto:Wordpress 
Foto: Keystone View Company (Collier’s New Encyclopedia, Volume 1/1921)
Foto: Templeton

Scritto da Camilla Marino