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Rotative su pellicola: quando il giornalismo d’inchiesta arriva al cinema

(Questo articolo l’ho scritto nel 2023, ma le recensioni ai film che seguiranno non hanno tempo, perché un film, una volta girato, è fissato nella storia cinematografica. Detto questo, buona lettura!)

 

Ho deciso di andare controcorrente e di proporvi un genere cinematografico che, spesso e volentieri, per qualche strana ragione, viene un po’ lasciato da parte, nonostante l’importanza rilevante: il legal thriller legato al giornalismo d’inchiesta, consigliandovi una serie di film appartenenti a questo filone che vi lasceranno incollati allo schermo.

Controcorrente perché? Perché avrei dovuto parlarvi degli Oscar di quest’anno, che ormai sono passati, e ci sarebbero mille considerazioni da fare in merito alla cerimonia, ai candidati e ai vincitori (a proposito, sono felice come una Pasqua per la vittoria meritatissima di Brendan Fraser in “The Whale”, mentre avrei preferito, nella categoria di miglior attrice protagonista, che la statuetta andasse o ad Ana De Armas per “Blonde” o a Cate Blanchett per “Tàr”).

Ma quanti articoli sono stati già scritti in merito?

Naturalmente, in futuro, vi parlerò anche dei film premiati dall’Academy, ma, per il momento, concentriamoci su queste pellicole che trovo particolarmente interessanti.

Prima di tutto, che cos’è il legal thriller?

Si tratta di un ramo del genere thriller (no, ma davvero?) sia in campo letterario che cinematografico. Conosciuto in Italia come thriller legale, thriller giudiziario o giallo giudiziario, si incentra, naturalmente, su scontri tra coccodrilli giganti e megalodonti con le ali… certo, come no.

A parte questo momento di cretineria, dicevo che le storie legal thriller si basano sul funzionamento del sistema giudiziario, su vicende di avvocati, tribunali e pubblici ministeri.

Le origini di questo sottogenere, dal punto di vista cinematografico, sono statunitensi, proprio per la tipologia di sistema giudiziario ivi presente, dove le arringhe degli avvocati la fanno da padrone. Spesso, anzi, quasi sempre, gli avvocati sono profondamente coinvolti nel caso preso in esame e il sistema giudiziario è così fortemente caratterizzato all’interno della pellicola, da risultare esso stesso una sorta di personaggio, oserei dire il vero protagonista.

Giusto per farvi capire di che categoria di film sto parlando (mi rivolgo soprattutto agli appassionati cinefili), pensate alla maggior parte dei capolavori intramontabili sfornati negli anni Novanta, quando questo genere andava di moda quanto il marsupio e il berretto portato al contrario.

Avvocati, arringa, tribunale, giuria, cliente accusato di qualcosa che si dichiara innocente fino alla fine ecc.

Secondo il giornalista e scrittore italiano di noir e gialli Massimo Siviero, invece, la vera origine del legal thriller risale al V secolo a.C., con l’oratore Antifonte di Ramnunte (i nomi propri dell’antichità sono sempre qualcosa di magico e bizzarro) e le sue storie narranti omicidi fittizi.

Esistono una miriade di pellicole di questo tipo, ma oggi voglio concentrarmi su quelle le cui trame si basano sul giornalismo d’inchiesta e sulle vicende biografiche.

Proprio qualche sera fa, in TV, hanno trasmesso uno di questi lungometraggi, uno dei miei preferiti: “Cattive acque”, datato 2019, diretto da Todd Haynes, con un cast composto da un impeccabile Mark Ruffalo, Anne Hathaway, Tim Robins, Victor Garber e Bill Pullman.

Questo, nello specifico, è un legal thriller biografico, basato sull’articolo del New York Times Magazine pubblicato nel 2016 e scritto da Nathaniel Rich, recante il titolo “The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare” (“L’avvocato che divenne il peggior incubo della DuPont”).

Siamo nel 1998 e Robert Billiot è un giovane avvocato specializzato nella difesa di aziende chimiche, sul trampolino di lancio per il successo e per una brillante carriera. Un giorno, viene contattato da Wilbur Tennant, un allevatore di Parkersburg, nel West Virginia: l’uomo dichiara di aver perso 190 mucche, morte a causa di condizioni mediche piuttosto anomale, come numerosi tumori di considerevoli dimensioni, malformazioni congenite, nonché denti neri come il carbone e organi ingrossati in maniera innaturale.

Robert accetta di aiutare l’uomo nell’indagine e parte così un’inchiesta contro la DuPont, incentrata sull’utilizzo del PFOA, l’acido perfluorootannoico (sì, è un nome un po’ speciale) usato per la produzione del teflon, un materiale utilizzato per i rivestimenti delle padelle e la cui tossicità, prolungata nel tempo, è estremamente pericolosa.

Questo film è potente, cupo, drammatico, crudo, a tratti oserei dire spietato, tutte sensazioni amplificate da una fotografia “ad altezza d’uomo”, molto fedele a uno sguardo umano e da una scelta cromatica decisamente azzeccata, che rende il tutto ancora più “pesante” e opprimente, un’estensione della fatica psicologica nonché fisica del protagonista, con un filtro tendente a una particolare tonalità di verde che intensifica queste impressioni.

“Cattive acque” non fa sconti a nessuno: questi sono i fatti, questa è la dura realtà, dove i colossi chimici come la DuPont sono davvero difficili da abbattere, un’impresa titanica, Davide contro Golia. Mark Ruffalo e Anne Hathaway ci regalano delle performance assolutamente credibili, Ruffalo ci dona una mimica facciale impagabile, portatrice di una trasformazione fisica sottile e allo stesso tempo lampante.

La regia di Todd Haynes dona montaggi alternati studiati con attenzione per dare ancora più drammaticità e importanza alla storia, oltreché scene decisamente intense dal punto di vista della “crudezza”.

Un film consigliatissimo che, non so per quale ingiusto motivo, non è stato neanche considerato per una Nomination agli Oscar del periodo.

Un’altra proiezione, più “vecchia”, ma celebre ancora oggi è “Erin Brockovich – Forte come la verità”, datata 2000, con la regia di Steven Soderbergh e i protagonisti interpretati da una Julia Roberts in forma smagliante e Albert Finney.

Anche qua si parla di inchiesta e di biografia (quindi, ricordiamolo, di storia vera), una sceneggiatura firmata Susannah Grant che fece vincere alla nostra amata Julia Roberts l’Oscar come miglior attrice protagonista, il Golden Globe e un Premio BAFTA.

La vicenda è avvenuta all’inizio degli anni Novanta, a Los Angeles. Erin Brockovich è madre di tre bambini, disoccupata e reduce da un divorzio. Nonostante la totale inesperienza, riesce a farsi assumere nell’ufficio dell’avvocato che le ha fatto perdere una causa dovuta a un suo incidente stradale. Un giorno, mentre sistema una serie di documenti, Erin si accorge di un’analogia alquanto singolare tra l’acqua della Pacific Gas and Electric Company e una serie di gravi malattie contratte dalla popolazione della comunità circostante. Spinta dal senso del dovere, con il benestare di Ed, l’avvocato che l’ha assunta e che in seguito la aiuterà, Erin comincia a indagare, scoperchiando un orrendo vaso di Pandora al cui interno c’è tanta acqua contaminata.

Questa pellicola, a differenza della prima, ha toni sì drammatici, ma più mitigati, data la presenza di una Julia Roberts totalmente fuori contesto, con i suoi abiti succinti e aggressive, un modo di fare piuttosto pratico, alla mano e un linguaggio spesso volgare ai limiti dell’offensivo, controbilanciati dall’atteggiamento più cauto e posato di Ed. Insomma, questa coppia a dir poco strampalata, ma che funziona, strappa qualche sorriso e qualche risata, attenuando vicissitudini ingiuste e a dir poco tragiche, tra lutti e malattie di ogni sorta.

Questo è stato, in effetti, il primo vero ruolo drammatico interpretato da Julia Roberts, che fino a quel momento era stata la protagonista di numerose commedie romantiche, come il famosissimo “Pretty Woman” (dove l’unica ad avere un lieto fine “è stata quella gran culo di Cenerentola”).

Qui, Julia Roberts risulta vera, ostinata, determinata, una vera figura da girl power, una donna con le palle, capace di tenere testa a un altro gigante da abbattere, facendo partire una class action con risultati mai visti prima nella storia.

Se volete un film potente, forte e diretto, “Erin Brockovich” fa al caso vostro. È uno di quei lungometraggi che io rivedo spesso e volentieri. Tra l’altro, i veri Erin e Ed hanno partecipato alla realizzazione della pellicola e la stessa Erin fa un cameo nei panni di una cameriera.

La vera Erin Brockovich nel cameo del film

Tornando al nostro caro, amato e bravo Mark Ruffalo, non posso non consigliarvi un altro cult movie sul giornalismo d’inchiesta, entrato di prepotenza nella storia del cinema, anch’esso narrante una storia realmente accaduta: “Il caso Spotlight”, film del 2015 che si è portato a casa ben due statuette degli Oscar (sarebbero state tre se l’avesse vinta anche Mark Ruffalo come miglior attore non protagonista, perché lo meritava, mannaggia!), ovvero quella per il miglior film e la miglior sceneggiatura originale.

Il cast è composto da (diciamolo insieme) “figli di nessuno”: Mark Ruffalo, come ho già detto, Micheal Keaton, Rachel McAdams e Stanley Tucci.

Manco a dirlo, la sceneggiatura, scritta dal regista Tom McCarthy e Josh Singer, si basa su tutti gli articoli e le inchieste inerenti al caso, pubblicati dal Boston Globe.

Siamo nel 2001 e Spotlight è una squadra giornalistica che lavora per il Boston Globe. In questo scenario, si comincia a indagare sugli abusi sessuali perpetrati dai sacerdoti dell’Arcidiocesi di Boston nei confronti di diversi minorenni. Da lì, viene scoperchiato l’ennesimo vaso di Pandora.

Se in “Cattive acque” ho descritto Ruffalo come “credibile” e “impagabile”, ne “Il caso Spotlight” raggiunge vette altissime, infatti è stato candidato agli Oscar. E anche Rachel McAdams non scherza affatto. Lei, d’altronde, è un’ottima attrice, quasi camaleontica, capace di passare da una commedia romantica come “Due single a nozze” a film di questo calibro, con una naturalezza incredibile.

La vicenda è raccontata con lo stesso ritmo che caratterizza il mondo del giornalismo: veloce, dinamico, serrato e contemporaneamente dettagliato e analitico.

Se dovessi descrivere questo film con una sola parola, userei questa: coraggioso.

La questione della pedofilia in territorio ecclesiastico è sempre stata una tema molto scottante, ai limiti del tabù, governato da una quasi totale omertà. “Il caso Spotlight” è riuscito, invece, a renderlo palese, un problema vero, che va affrontato, che va rivelato al mondo.

Insomma, si tratta, a tutti gli effetti di un lungometraggio che parla di verità e non ha paura a farlo.

Una vera perla miliare non solo del genere, ma dell’intera storia cinematografica.

Consigliato al mille per mille, compito a casa!

E sempre parlando di giornalismo d’inchiesta e storie vere, ecco a voi un titolo che convoglia queste due caratteristiche: “Truth – Il prezzo della verità”, uscito nel 2015, con la regia di James Vanderbilt e un cast in cui figurano Cate Blanchett e Robert Radford.

La pellicola ripropone le indagini condotte dalla giornalista Mary Mapes sull’arruolamento nella Guardia Nazionale di quello che, di lì a poco, sarebbe diventato il nuovo Presidente degli Stati Uniti, George Bush. Infatti, la storia ha avuto luogo nel 2004. Il motivo di tale indagine è il sospetto che Bush fosse, in realtà, uno dei tanti “raccomandati” che ebbero la possibilità di arruolarsi direttamente nella Guardia Nazionale e, di conseguenza, evitando l’arruolamento nelle normali forze militari che nel 1972 partivano per la Guerra in Vietnam.

Questo adattamento cinematografico delle memorie di Mary Mapes stessa, recanti il titolo “Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power” (in italiano, “Verità e Dovere: La Stampa, il Presidente e il Privilegio del Potere”… che detta così mi ricorda un po’ “Le Cronache di Narnia: il Leone, la Strega e l’Armadio”), passa ingiustamente in secondo piano ogni volta che si parla di lungometraggi inerenti al giornalismo d’inchiesta (e mi verrebbe da dire, chissà come mai, visto il polverone che venne alzato all’epoca).

Come recita il titolo, “Truth” è un film che parla di verità e del prezzo che bisogna pagare per farla risalire in superficie. Infatti, a differenza degli altri film di cui vi ho parlato fino a ora, qui si analizzano soprattutto le conseguenze dell’operato di una squadra giornalistica che, se si fosse giocata bene le proprie carte, avrebbe creato uno scandalo di proporzioni bibliche.

Un punto in comune con “Il caso Spotlight” è il coraggio di prendere posizione, mentre si discosta da esso per la mancanza di quella sfumatura più sociale ed empatica che riesce a farti immergere ancora di più nella vicenda.

E torniamo su un altro filmone da Oscar, sempre parlando di giornalismo d’inchiesta e storie vere, con “The Post”, del 2017, sotto la regia di nientepopodimeno che Steven Spielberg, con un cast composto da mostri sacri del cinema come Meryl Streep, Tom Hanks e Sarah Paulson.

In questo caso, si ripercorre la pubblicazione dei Pentagon Papers da parte del Washington Post nel 1971, ovvero una serie di documenti top secret riguardanti il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, in particolare sulla questione della Guerra in Vietnam.

Anche qua si scoperchia… un vaso di Pandora (qualcuno mi trovi un’altra roba da scoperchiare, perché è l’ennesima volta che lo ripeto!), ma questa pellicola ha un ritmo e uno stile leggermente diverso rispetto agli altri sopracitati.

Infatti, non è dinamico, non è empatico o sociale, ma fornisce un altro tipo di prospettiva, ovvero quella dell’importanza e del peso di una notizia, una notizia vera, che può davvero cambiare la percezione di uno Stato, del proprio governo e di come certe prese di posizione, a livello globale e internazionale, vengano gestite realmente.

“The Post” si può considerare più un film storico, piuttosto che un film sul giornalismo d’inchiesta, proprio per la scelta stilistica non incalzante o frenetica: non segue lo scoop che deve essere pubblicato entro la mezzanotte per farlo comparire sulle pagine del giorno dopo. Si tratta, al contrario, di una sorta di “dietro le quinte” del giornalismo di una volta, quello che ponderava, cercava la verità e anziché pensare al “chi arriva prima”, si concentrava sul raccontare una storia, sviscerandola in ogni dettaglio.

Non a caso, nell’edizione del 2018 è stato candidato a miglior film e miglior attrice protagonista (ovvero, la nostra cara Meryl Streep).

Una pellicola sicuramente da non perdere, un carico da novanta per il genere!

Ma le storie vere sul giornalismo d’inchiesta vanno anche più indietro nel tempo, mescolandosi perfettamente al thriller, con una leggerissima punta di poliziesco, in un film recentissimo, uscito nell’anno corrente 2023, firmato da Matt Ruskin e prodotto da Ridley Scott, con una perfetta Keira Knightley come protagonista: “Lo strangolatore di Boston”.

Siamo a Boston (effettivamente il titolo parla chiaro, di certo non siamo in Senegal) negli anni ’60 e la reporter Loretta McLaughlin, che lavora al Boston Record American, decide di indagare su un pericoloso serial killer che sta mietendo vittime, soprannominato, appunto, “lo Strangolatore di Boston”.

Come in “Erin Brockovich”, il girl power è assicurato, soprattutto perché si parla di un’epoca dove l’emancipazione femminile stava cominciando timidamente a prendere piede e alcuni contesti lavorativi erano dominati da un maschilismo pressoché totale. L’affermarsi di questa reporter nel mondo della cronaca, lasciando da parte gli articoli “da donna” pubblicati dal giornale per cui lavora, è semplicemente strabiliante.

Anche perché il serial killer in questione è stato accusato di aver ucciso ben 13 donne, tra i tredici e gli ottantacinque anni (una fascia di età bella ampia) in soli due anni, dal 1962 al 1964. Quindi si parla di una giornalista che non solo si è messa in prima linea dal punto di vista giornalistico e investigativo, ma con la propria vita, mettendosi sotto un gigantesco occhio di bue e rischiando la pelle.

È proprio questo il grande punto di forza del film, dotato di una scrittura di stampo molto classico.

E se vi piacciono i film giornalistici con annesse storie di serial killer (sempre di storie vere si parla), non posso non consigliarvi “Zodiac”, perla miliare del cinema di genere partorita nel 2007, sotto la regia di David Fincher e la sceneggiatura di James Vanderbilt, con un cast corale composto da Jake Gyllenhaal, Mark Ruffalo (sempre lui, deve piacergli davvero molto il mondo dell’inchiostro e delle rotative), Robert Downey Jr. (per gli amici, Iron Man), Anthony Edwards e Brian Denis Cox.

Il film ripercorre le vicende del San Francisco Chronicles che, nel 1969, riceve una lettera da parte del presunto assassino di una coppia rimasta uccisa proprio la sera prima. Il mittente è il Killer dello Zodiaco (o Zodiac), uno dei più “celebri” e famigerati serial killer della storia, anche perché, ancora oggi, non si conosce il suo vero volto.

Il ritmo di questo lungometraggio è piuttosto lento, soprattutto per il fatto che non risparmia neanche un battito di ciglia: ogni analisi, ogni supposizione, ogni svolta, ogni retrocessione, viene analizzata tutta con una meticolosità quasi maniacale, oserei dire estrema.

Ma rimane comunque una pellicola DA VEDERE, ASSOLUTAMENTE, soprattutto se si è “malati” di tematiche crime come la sottoscritta.

Se, invece, volete rimanere sul tema giornalismo, storie vere e di nuovo girl power miscelati insieme, ecco a voi quel gran capolavoro di “Bombshell – La voce dello scandalo”, diretto da Jay Roach nel 2019, con Charlize Theron, Nicole Kidman e Margot Robbie che interpretano tre conduttrici della Fox, vittime delle molestie sessuali perpetrate dall’allora presidente e amministratore delegato del network, Roger Ailes.

Estensione del movimento #MeToo, dopo lo scandalo Weinstein, “Bombshell” è un film denuncia, che asfalta come un tir la questione delle molestie e degli abusi sul luogo di lavoro. Questo capolavoro può essere considerato come una sorta di scudo per tutte le donne che si trovano in situazioni lavorative estremamente complesse e difficili da gestire, come se volesse dire “Lo so, il problema esiste”. Una pellicola che anziché imbavagliare, prende il megafono e grida a gran voce, mettendo in mostra ogni inganno, ogni ricatto.

Tra l’altro, è stato candidato nel 2020 nelle categorie di miglior attrice protagonista (Charlize Theron) e miglior attrice non protagonista (Margot Robbie), vincendo la statuetta per il miglior trucco.

Ma adesso, spostiamoci su un altro territorio, ovvero un thriller/horror in stile mockumentary (genere cinematografico di cui vi ho già parlato in un mio precedente articolo), che prende ispirazione da fatti realmente accaduti, utilizzando l’espediente di un servizio giornalistico effettuato da VICE, un’organizzazione giornalistica online (che noi tutti conosciamo): “The Sacrament”, del 2013, scritto e diretto da Ti West.

Una troupe del già citato giornale, decide di girare un servizio su una piccola comunità religiosa quasi del tutto isolata dal mondo, al cui comando vi è una carismatica figura che viene chiamata Padre.

Il film prende spunto, come dicevo, da un fatto di cronaca accaduto nel 1978: il massacro di Jonestown. Si tratta di un suicidio di massa (ben 909 vittime, tutte avvelenate con il cianuro) effettuato dai membri del Tempio del Popolo, una comunità religiosa statunitense situata in Guyana, comandata e fondata dal pastore Jim Jones.

“The Sacrament”, nonostante la vicenda narrata nella pellicola sia fittizia, riesce a fare qualcosa che praticamente nessun film del genere che vi ho citato sinora è riuscito a fare: mettere la telecamera al servizio della verità.

Posso dire con assoluta certezza che questo è uno di quei casi in cui lo stile falso documentario è stato utilizzato con molta intelligenza, ma soprattutto con uno scopo ben preciso. I monologhi e le predicazioni del Padre sono tanti, ma servono proprio per far comprendere come un’intera comunità sia riuscita a farsi plagiare da una sola mente, al punto di compiere un gesto estremo in nome di un credo religioso e delirante.

Una pellicola non di quelle stra conosciute, ma sicuramente molto interessante.

E sempre parlando di storie fittizie, ma comunque legal thriller, sul giornalismo d’inchiesta, un’opera vintage, datata 1993, diretta da Alan J. Pakula e tratta dal romanzo di John Grisham, dove compaiono Julia Roberts e Denzel Washington nei panni dei due protagonisti: “Il rapporto Pelican”.

Una giovane studentessa di giurisprudenza della Tulane University decide di redigere un rapporto contenente una sua teoria sul movente dietro la morte di due giudici della Corte Suprema. Dopo un tragico evento collegato alla scoperta di questo rapporto, la ragazza si rivolge a un giornalista del Washington Herald per tutelare la sua storia e risolvere il mistero.

Ecco un bel film che grida anni ’90 a ogni fotogramma! Uno di quelli che mi fanno provare una melanconia assurda e mi fanno pensare “Quanto avrei voluto vivermi quegli anni”.

Se invece volete qualcosa di più recente, sempre artificioso e sul giornalismo, un Film con la F maiuscola: “State of Play”, datato 2013, diretto da Kevin Macdonald (no, non quel McDonald, non vi fa un Big Mac), con un cast composto da Russell Crowe, Ben Affleck, Rachel McAdams, Helen Mirren, Robin Wright e Jason Bateman (ogni volta che sento questo cognome, non posso fare altro che pensare ad “American Psycho”): il tutto ruota attorno alla morte di una donna che si ipotizza essersi suicidata, buttandosi sui binari della metro, a Washington. Tuttavia, la donna era l’amante del deputato Stephen Collins (interpretato da Ben Affleck), nonché sua assistente. Stephen non crede affatto al suicidio della donna e decide di rivolgersi a un suo amico di vecchia data che ora fa il giornalista (Russell Crowe), che deciderà di indagare insieme a una giovane reporter di nuova generazione (Rachel McAdams).

“State of Play” è un film che si divora! Un thriller degno di nota, da non perdere, bello incalzante, dove ogni due minuti si ha una svolta, dove fino alla fine si vuole capire cosa ci sia dietro tutta questa storia.

E infine (perché mi rendo conto che questo articolo è abbastanza lungo), tornando sui legal thriller riguardanti fatti reali, ecco che aggiungo alla lista “True Story” e “Il processo ai Chicago 7”.

Il primo è un debutto alla regia di Rupert Goold, nel 2015, con un magistrale Jonah Hill come protagonista e James Franco che fa da coprotagonista: il giornalista Michael Finkel, che lavora al New York Times, un giorno riceve una telefonata che gli rivela che Christian Longo, uno dei maggiori ricercati dell’FBI, ha dichiarato di essere Finkel stesso. Il giornalista decide di incontrare l’uomo, non solo per capire di più, ma anche per riprendersi da un suo precedente servizio che non era andato nel migliore dei modi. Da qui, parte la storia.

Il secondo film che vi ho citato è, invece, datato 2020, diretto da Aaron Sorkin, con un cast corale composto da Yayha Abdul-Mateen, Eddie Redmayne, Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, Michael Keaton e John Carroll Lynch (praticamente il casting lo hanno fatto chiedendo espressamente gente che avesse due o tre nomi messi insieme): il film ripercorre le vicende dei cosiddetti Chicago Seven, un gruppo di attivisti contro la Guerra in Vietnam che vennero accusati di aver causato un cruento scontro tra la Guardia Nazionale e i manifestanti, il 28 agosto del 1968, a Chicago (ovviamente).

E quest’ultimo è il film che più ho amato nel 2020, candidato a ben sei statuette, tra cui miglior film e miglior attore non protagonista, nonché miglior sceneggiatura originale.

Bene, basta così, per oggi. Di consigli ve ne ho dati a sufficienza.

Quindi, come sempre, pop corn alla mano e buona visione!

Scritto da Camilla Marino