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Mockumentary e Found footage – I consigli cinematografici di FunkyCami #2

Nel mio articolo precedente (che potete trovare cliccando QUI o andando nella sezione “Cinema”), vi ho accennato un particolare genere cinematografico, che vi spiegherò di seguito.

Bene, eccomi qui! Oggi vi voglio proporre infatti dei consigli basati principalmente su questo filone della cinematografia che, personalmente, apprezzo molto quando eseguito come si deve: parlo di mockumentary e found footage.

 

Prima di proporvi quelle che sono, a mio avviso, le pellicole migliori di questo genere, è doveroso spiegare di che cosa si tratta.

 

Innanzitutto, la parola “mockumentary” nasce dalla fusione di due parole inglesi, ovvero “to mock” (deridere, farsi beffe di qualcuno) e “documentary” (documentario, appunto). In pratica, il mockumentary si propone come un film che vuole mostrare allo spettatore dei fatti fittizi spacciati per veri, grazie alle tecniche usate per la realizzazione dei documentari.

Infatti, una delle caratteristiche principali che rendono riconoscibilissimi questi film, sono le tipologie di riprese effettuate: spesso, per l’appunto, la regia ricorda tantissimo quella di un reale documentario grazie alle riprese fatte con cellulari, cameramen con la cinepresa in spalla, videocamere, macchine fotografiche. Insomma, tutto ciò che è portatile e con cui si può riprendere qualcosa. Questa è una delle sostanziali differenze dai lungometraggi, per così dire, “classici”. Se infatti in una pellicola non mockumentary ci sono delle inquadrature pulite e precise, nel mockumentary si possono trovare, magari, riprese leggermente mosse, di stampo fintamente amatoriale, cambi di inquadratura “in diretta” e repentini. Dovete immaginare un servizio televisivo mandato in onda al telegiornale! Ecco, questo è il principio.

Ovviamente, siccome si parla di falso documentario, il mockumentary utilizza uno stile narrativo pressoché identico a quello usato nei documentari veri, proprio per “confondere” le idee e assottigliare il più possibile il confine tra realtà e finzione.

Degli esempi di espedienti utilizzati per i mockumentary, possono essere la realizzazione di un progetto universitario che prevede delle riprese con la videocamera o la registrazione in diretta di un evento sconcertante per poter elaborare un servizio giornalistico. E tra poco vi presenterò due capolavori cinematografici del genere che usano proprio questi due espedienti (probabilmente molti fan li conoscono già).

Tuttavia, il termine mockumentary, teoricamente, non è del tutto esatto quando si parla di film girati in campo horror: infatti esso dovrebbe classificare tutte quelle opere filmiche che hanno un sapore pressoché parodistico e satirico… e l’horror, tranne alcune rare eccezioni, non ha un cavolo di satirico e parodistico. Per questo filone, andrebbe utilizzato il termine falso-documentario o pseudo-documentario.

 

Perché ho citato i film horror? Beh… ormai quasi tutti i lungometraggi mockumentary sono del genere horror o thriller.

E soprattutto quando si parla di questo sottogenere, ecco che entra in gioco quell’altra espressione inglese che vi ho accennato sopra: il found footage. Per chi non mastica l’inglese, queste due paroline magiche vogliono dire in italiano “filmato ritrovato”. Si tratta, sostanzialmente, di un vero e proprio genere cinematografico che prevede il riutilizzo di materiale audio-video girato in un momento antecedente al suo ritrovamento. Il regista del film “rimette insieme i pezzi”, per così dire, in modo da creare una narrazione lineare, coerente e comprensibile allo spettatore.

Ma nei mockumentary, il found footage diventa un escamotage per poter giustificare la realizzazione vera e propria del film. Immaginate una situazione del genere: in una casa vengono ritrovati dei cadaveri e la polizia non riesce a capire cosa diavolo sia successo, ma le telecamere di videosorveglianza dentro all’abitazione hanno ripreso tutto; il ritrovamento e il montaggio del materiale audio-video ritrovato ci farà capire, insieme ai poliziotti, la cronologia dei fatti avvenuti e chi sia il “macellaio” di turno. Questo è un buon esempio di utilizzo del found footage in un film horror.

Il found footage, inoltre, non è una caratteristica solo dei film mockumentary perché può comprendere anche ritagli vecchi di giornale, fotografie ritrovate per caso e via dicendo. Pensate, per esempio, alla intro del remake di quel capolavoro horror che è “Le colline hanno gli occhi”, firmato dal Maestro Wes Craven (la regia del remake è stata affidata ad Alexandre Aja).

Ci sono poi altre due caratteristiche dei film girati in stile mockumentary. La prima è il budget: per la realizzazione di lungometraggi del genere, i costi sono pari a quelli di un pacchetto di patatine e un caffè… bassissimi.

L’altra, non è una vera e propria caratteristica… è più un “dovere”, a parer mio: la recitazione. Secondo me, per un’accurata sospensione dell’incredulità, gli attori devono essere totalmente credibili! La recitazione deve essere perfetta, perché gli spettatori devono pensare che sia stato girato davvero quel particolare filmato, non deve apparire come un attore pagato per immedesimarsi in un ruolo, soprattutto quando si vuole usare la tecnica del found footage.

 

Creare pellicole mockumentary non è affatto semplice proprio per quest’ultimo punto: la credibilità. Infatti, voglio proporvi alcuni film riusciti meglio, i capisaldi del genere, per poter apprezzare completamente questo stile registico che risulta essere estremamente particolare: o lo si ama o lo si odia, in sostanza.

Come non posso partire con la pellicola che è stata lo sparo del via? I fan come me sanno già di cosa sto parlando, quindi gridiamo a gran voce il titolo di questo capolavoro del genere: “The Blair Witch Project”, del 1999, scritto e diretto da Daniel Myrick e Eduardo Sanchéz, dove i tre attori protagonisti (Heather Donahue, Joshua Leonard e Michael C. Williams) interpretano sé stessi.

Appartenente, naturalmente, al ramo horror, il film ha una trama molto semplice: tre studenti decidono di realizzare un documentario sulla leggenda della fantomatica strega di Blair, ma spariscono nel bosco dopo pochi giorni dall’inizio delle riprese. Le squadre di ricerca trovano nella foresta i filmati girati dai tre prima di sparire. La storia viene narrata dalla ricostruzione di quei filmati.

Come avrete intuito, qua si parla di found footage… e che found footage! Ciò che colpisce di questo film è proprio la perfetta credibilità, grazie anche a una delle campagne pubblicitarie più riuscite della storia cinematografica: all’epoca era stato spacciato come un vero ritrovamento, come un vero caso di sparizione, la gente era terrorizzata.

Giravano storie e leggende su questa strega che rapiva i bambini e li uccideva, giravano dei volantini fittizi in stile “Chi l’ha visto?” con le facce dei tre attori. Rendetevi conto della genialità che c’è stata dietro alla realizzazione di questo progetto! Con un budget di 60 mila dollari (praticamente il costo di uno sgabuzzino a Milano) c’è stato un incasso di quasi 250 milioni!

La storia è stata costruita in maniera impeccabile, poiché la prima parte di film appare proprio come un documentario girato dai tre studenti, mentre il resto sono le loro vicissitudini dentro questa foresta agghiacciante, in un crescendo di panico e terrore che fanno letteralmente rimanere incollati alla sedia. In questa storia non è un effetto speciale strano o un’entità visibile a fare paura, è un gioco di “vedo non vedo”… un po’ come quando nel buio di camera vostra vi sembra di scorgere la sagoma di qualcuno che vi osserva mentre dormite. Uno di quei film che io guardo e riguardo a sfinimento!

Devo dire che mi è piaciuto anche il sequel del 2016: “Blair Witch”, diretto da Adam Wingard girato allo stesso modo, con qualche mezzo tecnologico più moderno come il drone o le microcamere. Forse la mia è un’opinione impopolare, visto che non ha fatto impazzire i critici e una parte di pubblico, per quanto mi riguarda, invece, mi ha intrattenuta particolarmente!

E se parliamo di capolavori mockumentary, non posso non citarvi il celebre “REC”, il primo di una quadrilogia, un altro dei miei film horror preferiti. Questa non è una produzione a stelle e strisce, ma natia delle terre della Corrida, la Spagna, partorita dalle geniali menti di Jaume Balaguerò e Paco Plaza nel 2007, con protagonista Manuela Velasco. Una giornalista e il suo cameraman stanno realizzando un servizio sui vigili del fuoco che lavorano a Barcellona. Nella notte, durante le riprese, la caserma riceve una chiamata da un condominio, che segnala una signora anziana che sta creando molto scompiglio e disordine nello stabile, con grida strazianti che mettono nel panico i presenti. È l’inizio di un incubo e le vie di fuga sono precluse: la polizia non lascia uscire nessuno dall’edificio.

Ecco un altro esempio di credibilità: ci deve essere un motivo se, nonostante ci siano “sbudellamenti” vari, questi tizi continuino a riprendere il tutto. In questo caso è perché i protagonisti sono dei giornalisti che si trovano nel bel mezzo di una situazione tragica, che rappresenta una grandissima occasione per realizzare uno scoop incredibile.

Il film è terrificante… in senso positivo, ovviamente.

L’ambientazione chiusa diventa ai limiti del claustrofobico e l’aura di mistero che avvolge il tutto è estremamente coinvolgente, con una soluzione per niente scontata alla fine. Le reazioni umane agli eventi sono decisamente plausibili e l’adrenalina sale, sale, sale fino a schizzare in aria come un fuoco d’artificio. Mi è piaciuto molto anche il secondo capitolo della quadrilogia: “REC 2”, sequel diretto del primo e che coinvolge sia un gruppo di ragazzi entrati nell’edificio per puro scherzo, che un gruppo di militari entrati per gestire la situazione. Trovata originale per l’epoca quella di usare le microcamere posizionate sugli elmetti dei militari, che richiama molto i videogiochi “sparatutto” come “Call of Duty”.

Nonostante abbia detto che “The Blair Witch Project” sia stato “lo sparo del via”, il primo vero lungometraggio realizzato in questo stile risale al 1980: “Cannibal Holocaust”, diretto da Ruggero Deodato (sì, è una produzione italiana). In Amazzonia, una troupe televisiva viene incaricata di realizzare un documentario sulle tribù cannibali che ancora abitano quella zona, ma svaniscono nel nulla e per un paio di mesi non si hanno più loro notizie. Il professore Harold Monroe (interpretato da Robert Kerman, attore cinematografico e pornografico) parte quindi alla loro ricerca.

Questa pellicola è decisamente controversa. Aspramente criticata (e direi anche giustamente) per le vere uccisioni di animali effettuate per creare il film. Viene anche descritta, dai critici, come una sorta di snuff movie, ovvero un genere filmico che vede la ripresa di reali torture ai danni di qualcuno, che conducono spesso e volentieri alla morte della vittima. Ovviamente, non è il caso di questo film, semplicemente Deodato è sempre stato un regista estremo. Decisamente crudo per l’epoca, la visione è consigliata ai veri appassionati e a chi non si lascia impressionare facilmente.

E parlando di snuff movie, anche se non c’entra assolutamente nulla con il genere mockumentary, non posso non suggerirvi “8mm – Delitto a luci rosse”, risalente al 1999 (oggi tutti film vintage?), con la regia di Joel Schumacher e un cast composto da Nicholas Cage, Joaquin Phoenix, Peter Stormare e James Gandolfini. Appartenente ai generi thriller, drammatico e noir, la storia vede un investigatore privato incaricato da una facoltosa donna anziana di scoprire il mistero che si cela dietro a un nastro trovato nella cassetta di sicurezza del defunto marito. Il filmato sembra essere un filmino pornografico dove la giovane ragazza protagonista viene brutalmente picchiata e uccisa a coltellate.

Filmone, non c’è nulla da aggiungere. Gli appassionati di thriller conosceranno sicuramente questa pellicola, obbligatoria per tutti i fan del genere. Mostra in maniera nuda e cruda il sottobosco del cinema porno, quello che tutti sappiamo esistere, ma per il quale, spesso ci mettiamo le fette di salame sugli occhi per fare finta di non crederci. Spiazzante, violento, sporco e veritiero.

Tornando al nostro mockumentary, una pellicola d’eccellenza è sicuramente il primo “Paranormal Activity”, datato 2007, realizzato quasi interamente da Oren Peli e i protagonisti Katie Featherston e Micah Sloat (che interpretano loro stessi): una giovane coppia è vittima di strani eventi all’interno della propria casa e il fidanzato decide di voler registrare tutto con la videocamera, per poter scoprire cosa sta succedendo.

Ancora una volta, ecco un esempio di come poco budget porti a grandi incassi (un budget di 15 mila dollari e un incasso di quasi 200 milioni). Per quanto possa sembrare “commerciale”, questo film riesce perfettamente nel suo intento: creare ansia, a livelli sempre più alti mano a mano che il nastro scorre. I fenomeni paranormali si fanno sempre più evidenti e violenti in un climax che lascia sempre meno spazio per prese di posizione razionali o ben ponderate da parte dei due personaggi, sempre più presi dal panico. E le riprese in visuale notturna sono decisamente angoscianti!

 

Lo stesso regista, nel 2015, ha girato un altro film utilizzando la tecnica del found footage, ma a questo giro si parla di horror fantascientifico: “Area 51”, dove un gruppo di ragazzi, in seguito a un episodio molto singolare accaduto a uno di loro in precedenza, decidono di entrare nella famosa Area 51, per vedere che cosa nasconde al suo interno. Ovviamente, il tutto viene ripreso con le videocamere.

Ci voleva una ventata d’aria fresca nel genere mockumentary! Vi avevo parlato di alieni in un mio articolo della sezione “Spazio e dintorni” (potete cliccare sul nome della categoria per leggerlo), quindi eccovi gli alieni in stile falso-documentario! Idea, devo dire, accattivante, anche se, forse, alcune sequenze più di azione sono un po’ confusionarie proprio a causa della scelta registica di usare la videocamera. Credibilissimo, per carità, solo che, forse, per alcuni potrebbe risultare fastidiosa questo tipo di ripresa. Titolo comunque decisamente consigliato, soprattutto se siete amanti delle storie sugli incontri ravvicinati del quarto tipo. A proposito, se volete degli altri consigli cinematografici inerenti a questo tema, il mio articolo precedente (cliccate sopra la dicitura) è pieno zeppo di questi suggerimenti!

Tornando a parlare del filone paranormale, mescolando sia la tecnica del found footage che quella del falso documentario, un altro dei miei film del genere preferiti è “ESP – Fenomeni paranormali” (“Grave Encounters” è il titolo originale), datato 2011, diretto e sceneggiato da The Vicious Brothers (un duo di registi canadesi, Colin Minihan e Stuart Ortiz). Una troupe che ha creato una serie televisiva di cacciatori di fantasmi, decide di passare la notte in un ospedale psichiatrico abbandonato, che si dice sia infestato. Cosa potrà mai andare storto con una premessa del genere? Niente, a parte TUTTO!

Non so voi, ma i manicomi, nei film horror, mi fanno impazzire: sono una delle mie location preferite. Spettrali, pieni di energia negativa, ti senti osservato mentre cammini lungo i corridoi tetri, oscuri e ormai abbandonati, dove riesci a percepire perfettamente la sofferenza, il dolore e la morte dei pazienti che vi hanno albergato… e che, forse, vi albergano tutt’ora. Queste sensazioni sono tutte racchiuse in questa pellicola (la mia passione descritta qua sopra potrebbe farvi pensare che assomiglio a Mercoledì Addams, serie, tra l’altro, in onda su Netflix con il titolo “Wednesday”… guardatela!). E poi, vogliamo parlare del profondo senso di claustrofobia, panico, terrore e pazzia che si prova quando… no, non proseguo oltre, lascio a voi la visione, capirete di cosa parlo quando lo vedrete.

Altro mockumentary che mi ha intrigata particolarmente e che è passato (non capisco per quale motivo) un po’ in sordina è “Necropolis – As above as below”, del 2014, diretto e sceneggiato da John Erick Dowdle: Scarlett è una giovane e brillante archeologa che decide, accompagnata da altri ragazzi, di addentrarsi nella parte sconosciuta al pubblico delle catacombe di Parigi, per poter ritrovare nientepopodimeno (si scrive proprio così attaccato)  che la pietra filosofale, per la quale suo padre, ormai deceduto, è arrivato alla follia.

Sarà perché sono sempre stata attirata dalle grotte (esattamente come gli ospedali psichiatrici), i cunicoli, il buio sottoterra, sarà perché sono appassionata di tutte quelle storie presunte vere e leggende metropolitane che aleggiano attorno alle catacombe di Parigi, sarà perché si tratta proprio delle catacombe di Parigi, ma amo questo film! Inquietante, super mega claustrofobico, angosciante e terrificante a tratti, letteralmente un inferno. Un luogo dove niente è come sembra e dove il buio regna sovrano. E poi… il personaggio di La Taupe… quanto cavolo fa paura?! Mi ha terrorizzata quando è sbucato fuori dalle tenebre!

Se invece volete qualcosa di un po’ più “ignorante”, per così dire, prendiamo un bel monster movie girato in stile found footage: “Cloverfield”, del 2008, con la regia di Matt Reeves e la sceneggiatura scritta da Drew Goddard. La trama è semplice: un mostro invade una città e fa casino, mentre un gruppo di ragazzi riprende tutto.

Ecco, a differenza degli altri, questo ha avuto una base economica ben solida, pari a qualsiasi altro film. La trama non è così originale, ma le soluzioni adottate per il proseguimento della storia non sono male, si tratta di una pellicola da vedere quando si vuole stare leggeri e godersi un bel mostro che distrugge tutto… il che intrattiene spesso e volentieri.

 

Se si cerca qualcosa fatto davvero bene, con una fotografia impeccabile e un montaggio che ricorda assolutamente quello utilizzato per la realizzazione dei migliori documentari storici, ecco che vi propongo “The Atticus Institute”: uscito nel 2015, scritto e diretto da Chris Sparling, con protagonisti William Mapother, Rya Kihlstedt e John Rubinestein. Ambientato negli anni ‘70, il lungometraggio segue la storia del Dr. Henry West, il quale lavora presso l’Atticus Institute, in Pennsylvania. Questa struttura si occupa di condurre ricerche sui fenomeni paranormali e sulle persone con particolari abilità psichiche (come la telepatia o la telecinesi). Un giorno, all’interno di questo istituto arriva Judith Winstead, che dimostra di avere dei poteri estremamente forti, ma anche un comportamento molto strano.

Beh, quando ho visto questo film ho seriamente pensato che si trattasse di una storia vera: la narrazione viene elaborata in un modo decisamente accattivante, con l’utilizzo di articoli di giornale e fotografie che sembrano risalire all’epoca della storia. I filtri utilizzati e la regia sono super veritieri, sembra davvero di visionare del materiale audio-video girato negli anni ‘70. Il montaggio in stile documentario, con le interviste ai membri della famiglia West rende il tutto ancora più credibile, serio e professionale, quasi ci trovassimo davanti a un vero documentario.

Altro horror paranormale, legato alla linea possessioni demoniache, è “L’ultimo esorcismo”, del 2010, con la regia di Daniel Stamm, la sceneggiatura curata da Huck Botko e prodotto dal grande Eli Roth. Il reverendo protestante Cotton Marcus decide di praticare l’ultimo esorcismo della sua “carriera” davanti a una piccola troupe televisiva, in modo da poter raccontare la sua storia. Nonostante lui sia famoso nella comunità religiosa per i suoi 47 esorcismi, egli non ha fatto altro che sfruttare trucchi mentali e semplici effetti speciali per suggestionare i presunti posseduti, facendo credere a loro e ai familiari di aver veramente scacciato il demonio dal corpo della vittima. C’è un piccolissimo problema: durante quest’ultima “sceneggiata” Nell, la ragazza bisognosa d’aiuto, è posseduta sul serio.

Essendo un’appassionata di film sulle possessioni spiritiche e demoniache sono, di conseguenza, estremamente puntigliosa e difficile da accontentare su questo fronte, proprio perché si tratta di un tema ormai sfruttatissimo e difficilmente si riesce a produrre qualcosa di veramente originale. 

Quando andai a vederlo al cinema, nel 2010, mi ritrovai piacevolmente colpita dall’utilizzo di questa tecnica di narrazione e dalla scelta registica, che sapevano di novità per il sotto-filone horror degli esorcismi. Ashley Bell, che qui interpreta l’adolescente posseduta Nell, è bravissima, davvero inquietante e spaventosa. Certe sequenze le ho trovate raccapriccianti, in senso positivo e mi è piaciuto particolarmente il cliffhanger finale. Per chi non lo sapesse, con il termine cliffhanger si intende letteralmente un “finale sospeso”, non un vero e proprio colpo di scena. Si tratta più di una sequenza che porta lo spettatore a rimanere sì sorpreso, ma soprattutto a interrogarsi sui possibili sviluppi futuri della storia, sviluppi che, almeno per quanto mi riguarda, potevano rimanere nell’ombra senza il sequel di questo film.

E ancora, volete qualcosa di più realistico e tangibile delle possessioni demoniache? “The Bay” fa assolutamente al caso vostro. Film del 2012, diretto da Berry Levinson e sceneggiato da Michael Wallach. Tra i produttori figura il già citato Oran Peli (il regista di “Paranormal Activity” e “Area 51”… gli piace proprio il genere mockumentary!): siamo nel 2009 e la narratrice della storia è una studentessa di giornalismo alle prese con il suo primo incarico da reporter. Ha il compito di redigere un servizio sui festeggiamenti del 4 luglio nella cittadina di Claridge, in Maryland. Ma i festeggiamenti prendono una brusca e tragica piega con l’improvviso scoppio di una violenta e letale epidemia, che si presenta sotto forma di grosse e purulenti vesciche.

Non vi è nulla di paranormale, qui viene sapientemente alternata la tecnica del falso-documentario con quella del found footage girato dai vari malcapitati di turno, dai dottori in ospedale, dalle forze dell’ordine e via dicendo. L’angoscia è alta proprio per la veridicità degli eventi, della plausibilità degli studi effettuati dagli esperti in materia nel corso della storia e dal concreto panico che può scaturire nella popolazione apprendendo una notizia del genere.

Un’altra pellicola che riesce sapientemente a mescolare il found footage con il mockumentary è “Il passo del Diavolo”, del 2013, diretto da Renry Harlin e sceneggiato da Vikram Weet: un gruppo di studenti decide di avventurarsi sul passo di Djatlov, sui monti Urali in Russia, per realizzare un reportage che cerchi di spiegare che cosa sia successo realmente nel 1959, quando avvenne il famoso (e reale) incidente del passo di Djatlov. Qui, infatti, un gruppo di escursionisti esperti, trovò inspiegabilmente la morte. Le cause dei decessi rimangono ancora oggi sconosciute, le dinamiche un mistero e circolano misteriosi racconti e leggende sull’avvenuto.

Decisamente intrigante l’idea di utilizzare un fatto vero come base di partenza per il progetto, poiché rende il tutto ancora più realistico. Soprattutto, incuriosisce parecchio l’aura di mistero che permea tutta la storia e la soluzione finale non è affatto scontata… e, forse per certi versi può risultare veritiera?

 

Infine, per la nostra carrellata di mockumentary, voglio consigliarvi un prodotto nato dalla mente di M. Night Shyamalan, nel 2015: “The Visit”. Una ragazza e suo fratello fanno visita ai nonni materni, che non hanno mai conosciuto. La ragazza è un’aspirante regista e decide di filmare la loro permanenza nella casa dei parenti, per poter realizzare un piccolo docu-film… ma c’è qualcosa di strano.

Ecco un altro esempio che spiega come serva una buona motivazione perché il protagonista o la protagonista di turno (in questo caso interpretata da Olivia DeJonge) continui a riprendere nonostante gli strani fenomeni che avvengono dentro casa. Molti hanno criticato questo film, ma secondo me è solo una sorta di accanimento nei confronti di questo regista che viene spesso incompreso, direi ingiustamente. Stiamo parlando del signore dei colpi di scena, chi lo conosce sa già cosa aspettarsi. Una nota di merito va all’attrice Deanna Dunagan, che qui veste i panni della dolce e cara nonnina… non dico altro!

Naturalmente non sono solo questi i film effettuati in stile mockumentary o che sfruttano la tecnica del found footage, ma ho voluto proporvi, per il momento, il best of del genere, evitando accuratamente quelli che hanno voluto sfruttare questa tecnica, ma senza saperla usare. Come ho già detto all’inizio di questo articolo, è molto difficile realizzare un film di questo genere che risulti credibile e fattibile.

 

Bene, direi che anche stasera sapete cosa guardarvi… pop corn alla mano e buona visione!

Scritto da Camilla Marino