Uno dei problemi principali del nostro Pianeta è, sicuramente, lo sfruttamento animale e tutte le conseguenze che ne derivano. Allevamenti intensivi, emissione di CO2, gas serra, inquinamento.
Un effetto di tutte le riflessioni costruttive e potenzialmente risolutive in merito è stato, ovviamente, un aumento della produzione e della vendita dei prodotti vegetariani e soprattutto vegani.
Non starò qui a esternare la mia opinione su questo tipo di dieta o sui valori nutrizionali degli alimenti vegani, ma vi parlerò, al contrario, di quella che risulta essere una possibile risposta da trovare nel nuovo mercato della carne, probabilmente capace di rimediare ad alcuni di quei problemi riscontrabili nella società odierna: il novel food e, più nello specifico, la carne coltivata (o clean meat o carne in vitro) e gli insetti commestibili.
In questo articolo, tenterò di fare un po’ di luce sui pro e i contro e su alcuni dubbi che si potrebbero avere sull’argomento, sulla produzione, sull’ecosostenibilità e sull’eticità di questi nuovi cibi. Anche perché, come viene riportato su Carni Sostenibili, la maggior parte degli articoli pubblicati sulla questione si basano per lo più su strategie di marketing, con appena un accenno di ciò che di scientifico c’è dietro
Ma prima di tutto, che cos’è il novel food?
Con questo termine si intendono, nel caso non fosse chiaro, tutti quei prodotti alimentari che non fanno parte della tradizione culinaria classica, soprattutto occidentale e che si rivelano essere i pionieri di un nuovo tipo di alimentazione, che non abbiano una storia di consumo “significativo” al 15 maggio 1997 in UE e che, quindi, devono sottostare a un’autorizzazione, per valutarne la sicurezza.
Nel corso degli anni abbiamo assistito alla comparsa di tanti novel food, ma in questo particolare periodo storico, l’occhio di bue è posizionato sulla carne coltivata, sugli insetti, sui cibi a base di CBD (si parla di canapa), addirittura sul baobab!
Naturalmente, il novel food comprende anche tutta quella serie di ingredienti che sono presenti nelle etichette di alcune pietanze già pronte acquistabili nei supermercati.
Sarebbe scontato dire che per far apparire un novel food in vendita sugli scaffali e, di conseguenza, sulla nostra tavola, non basterebbe andare in un bosco, mangiare il primo fungo che capita (anche perché vi ucciderebbe, non fatelo) e dire “Ah cavolo, è buono, possiamo metterlo in commercio!”.
Queste decisioni (non quella di mangiare il fungo velenoso a random nel bosco) vengono prese, secondo il Regolamento UE (sottolineo che mi concentrerò sulla regolamentazione del novel food solo in ambito europeo), dall’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare). Questo ente è il principale responsabile della promozione o bocciatura di tutti quei cibi che, all’inizio, vengono sempre additati come “roba strana”. I controlli, per ovvie ragioni, sono sempre molto rigidi e meticolosi.
I principali aspetti su cui si pone la concentrazione sono: il nuovo prodotto non deve essere tossico (Grazia, Graziella e Grazie…), qualora lo fosse, l’etichetta deve indicare la soglia massima di assunzione; se il nuovo alimento sostituisce un alimento preesistente, non vi deve essere alcuno svantaggio sotto il punto di vista nutrizionale; il nuovo prodotto alimentare deve essere etichettato correttamente (fonte, Il fatto alimentare)
Ma, come ho già detto, voglio porre l’attenzione sulla carne coltivata e sul consumo degli insetti.
Innanzitutto c’è da specificare la terminologia, sulla quale si tende a fare spesso molta confusione. È infatti consuetudine chiamare la carne creata in laboratorio con il nome di “carne sintetica”.
E non c’è bisogno di fare il gioco dei sinonimi e dei contrari per capire che tra “sintetica” e “coltivata” c’è un abisso senza alcun collegamento.
Infatti, al contrario di ciò che si possa pensare, questa carne non ha niente di sintetico, nonostante la parola “laboratorio” faccia pensare immediatamente a qualcosa di artificiale. Questa potrebbe essere una delle ragioni di tale confusione.
Infatti, per creare questa carne, si ricorre a una biopsia (ovvero un prelievo di un frammento di un tessuto o di un organo da un organismo vivente) del tessuto muscolare di un animale in vita, da cui si ricaveranno le cellule staminali necessarie per la produzione. Questa tecnica è già utilizzata nella medicina rigenerativa, cioè l’utilizzo delle cellule staminali per la cura delle malattie.
Queste cellule, successivamente, verranno cresciute all’interno di un bioreattore, alimentate grazie a un “brodo nutritivo”.
Il tessuto comincerà a crescere, fino a diventare il pezzo di carne che tanto agogniamo. Ma non è un procedimento che vale solo per la carne: anche uova e pesce.
Come avrete avuto modo di capire, salta subito all’occhio un fattore molto rilevante: questo tipo di produzione “carnivora” non implica la macellazione di nessun animale, dato che, come ho già detto, le cellule staminali vengono ricavate da organismi viventi.
Beh, grandioso! Per gli amanti degli animali come la sottoscritta che tuttavia non vogliono rinunciare al piacere di una grigliata sulla spiaggia, questa potrebbe essere un’innovazione.
Un’idea, tra l’altro, neanche così “recente”. La primissima volta che trovò terreno fertile fu nel 1931, quando Winston Churchill pensò al grande spreco che si fa ogni volta che si abbattono animali solo per mangiarne certe parti.
Ma fu lo scienziato olandese Willem van Eleen, negli anni ’50, a partorire specificatamente il progetto della carne coltivata, dopo aver sofferto la fame durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tuttavia, per la prima vera e propria creazione della carne in vitro, bisognerà aspettare il professore di patologia americano Russell Ross, che nel 1971 fece crescere il tessuto muscolare di un maiale in coltura cellulare.
E nonostante il primo hamburger ufficialmente coltivato in vitro e mangiato durante una conferenza stampa a Londra risalga al 2013 (grazie al professore Mark Post, Chief Scientific Officer della Mosa Meat, azienda produttrice di questo tipo di carne), è stato possibile creare la clean meat fin dagli anni ’90. Persino la NASA non si è tirata indietro in fatto di esperimenti, nei primi anni 2000.
Ma mettendo da parte la storia e tornando alle questioni pratiche, non solo non è necessaria la macellazione dell’animale per la carne coltivata, ma teoricamente basterebbero dieci cellule muscolari per produrre 50 mila tonnellate di carne, dopo una coltivazione di due mesi. (fonte, Animal Equality).
Inoltre, si possono creare, con questa tecnica, le cosiddette carni ibride, ovvero che mixano cellule animali e cellule vegetali, adatte per chiunque voglia ridurre il consumo di carne.
Siccome una biopsia non causa alcuna sofferenza all’animale, la clean meat è una soluzione decisamente allettante per l’abolizione quasi totale degli allevamenti intensivi.
Di conseguenza, si ovvierebbe al problema dei disboscamenti e dello sfruttamento del terreno che servono, appunto, per questi allevamenti.
Il consumo di acqua diminuirebbe drasticamente, dato che, secondo uno studio condotto da Environmental Impacts of Cultured Meat Production, per un chilo di carne bovina coltivata verrebbero impiegati solo 500 litri d’acqua e non gli 11.500 usati per quella naturale.
Beh, sembrerebbe tutto a posto, perché, allora, non si comincia a produrre su scala internazionale? Perché alla fine di marzo dell’anno corrente 2023, il governo italiano ha emesso un decreto che vieta la produzione di carne coltivata?
Per quanto le informazioni pubblicate dalla Coldiretti (Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti) siano alquanto fuorvianti e parziali, bisogna ricordare che la carne in vitro è ancora sperimentale, così come le sue tecnologie.
Per esempio, spesso si afferma che la clean meat sia esente da tutti i rischi comportati dall’assunzione di antibiotici e ormoni da parte del bestiame, una realtà purtroppo quotidiana.
Ma la carne coltivata non è un prodotto sterile che può sfuggire alle contaminazioni da parte di batteri, funghi o virus. Ragion per cui sarebbero comunque necessari antibiotici e fungicidi durante la coltura delle cellule. Anzi, nella produzione di carne in vitro è richiesto un conservante, come il sodio benzoato. A meno che, nel futuro, non si inventi qualcos’altro che impedisca tutto ciò.
Inoltre, è vero che la carne coltivata è carne al 100%, dove non vi è nulla di sintetico, ma non esistono ancora risposte certe per quanto riguarda il valore nutrizionale o anche solo il gusto.
Occorre rammentare che i bovini, suini, ovini, caprini, pollame e compagnia bella, che consumiamo ogni giorno, sono naturalmente ricchi di elementi come ferro, zinco e vitamina B12, molto difficili da replicare in laboratorio. I micro e macronutrienti presenti nella carne naturale, potrebbero non essere “clonati” fedelmente in un ambiente controllato e, di conseguenza, risulterebbero in quantità minore nel prodotto finale (ricordo l’uso del condizionale, in quanto si tratta di sperimentazioni e non di risposte certe).
Non si hanno dettagli neanche sulla produzione della mioglobina (una proteina globulare presente nelle fibre muscolari) e dei sapori aromatici che acquista naturalmente la carne durante il processo di frollatura.
E la chiusura massiccia degli allevamenti (attenzione, non sto parlando di quelli intensivi), inoltre, non sarebbe una grande soluzione perché non solo comporterebbe notevoli rischi economici per allevatori e produttori di carne tradizionale, ma gli allevamenti stessi, non dimentichiamolo, hanno anche la funzione di valorizzare la biomassa vegetale, rendendo il suolo fertile soprattutto grazie al letame prodotto dagli animali. Alcuni ecosistemi, equilibrati dalla presenza di bestiame in Natura, verrebbero assolutamente meno.
Inoltre, per coltivare le cellule iniziali della carne in vitro, vengono utilizzate grandi quantità di sostanze chimiche, che potrebbero comportare problemi di inquinamento del suolo.
E forse c’è anche da sperare che non sia l’ennesimo mero investimento a favore della speculazione e non a favore dell’uomo e della Natura.
Oltretutto, è vero che per creare un bel quantitativo di carne basta una manciata di cellule, estraibili grazie a un semplice prelievo con la siringa, ma sul lungo termine? Dovremo bucare gli animali in continuazione? Quindi l’eticità e il benessere degli animali che fine faranno?
Ovvio, non c’è paragone con prendere e dare una martellata in testa a un vitello (per una citazione alla “The Texas Chainsaw Massacre”, capolavoro slasher del 1974). Meglio essere siringati in continuazione.
Per quanto riguarda il discorso sulle conseguenze dei processi di sviluppo della carne coltivata, invece, preferisco non espormi, almeno non ancora, poiché viene sottolineato più volte come non esistano ancora dati certi che possano permettere un confronto in fatto di risparmio energetico e di risorse tra “vecchio” e “nuovo”, tra allevamento tradizionale e coltura in laboratorio. Va altresì ricordato che le stesse tecnologie sono sempre in via di evoluzione. Per esempio, le emissioni di CO2 di un bioreattore attuali non saranno le stesse tra qualche anno, in virtù del progresso scientifico.
Grazie alla ricerca si è già trovata una soluzione al siero fetale bovino, ingrediente essenziale per la coltura delle cellule in laboratorio: esso si è sostituito con un brodo di coltura vegetale (no, non il dado da cucina).
Perché la crescita dei microrganismi nella coltura in vitro, ha bisogno di terreni, che possono essere in forma semi-solida, per la presenza di agar, un gelitificante naturale, oppure liquida, appunto il brodo di coltura.
Questi terreni possono contenere, per esempio, peptone di soia o infuso di cuore e cervello o sangue defibrinato di pecora, cavallo o coniglio o, appunto, agar e altri componenti che non mi addentrerò a definire scientificamente. Troverete maggiori info dettagliate nel link qua accanto (cliccate qui)
Insomma, ci sono ancora molti quesiti che richiedono una risposta, ma solo il tempo sarà a nostro favore: prima di avviare la produzione e la vendita su ampia scala è meglio osservare e capire.
Inoltre, gli ingenti costi rendono la carne coltivata un prodotto ancora elitario: al momento, un solo burger costa circa 150/200 dollari, ma le aspettative di business futuro sono piuttosto alte, in previsione della fatidica domanda/offerta.
Le società che si stanno occupando di carne in vitro oggi, secondo i dati del Good Food Institute, sono 107, distribuite in 25 Paesi: in Europa sono 29 e in Italia una, la startup trentina Bruno Cell.
Intanto, l’unico luogo al mondo, almeno per il momento, dove è autorizzata la vendita al dettaglio di questo tipo di carne è Singapore, mentre il primissimo ristorante in cui è possibile consumare carne di pollo coltivata, è stato aperto a Tel Aviv nel 2020.
La stessa valutazione sta avvenendo anche per il cibo derivato dagli insetti.
Nonostante la gente inorridisca al pensiero di mangiare cavallette e coleotteri, in realtà stiamo già consumando alimenti i cui ingredienti sono a base di insetti.
Un esempio: il Campari! Il suo caratteristico colore, in effetti, deriverebbe dall’utilizzo di un colorante naturale (siglato spesso come E120) ottenuto grazie all’essicazione e macinazione della cocciniglia, un piccolo insetto rosso appartenente alla famiglia delle coccinelle.
E come nel Campari, utilizzato nello Spritz, la cocciniglia può essere presente negli yogurt alla fragola e ai frutti di bosco, negli orsettini gommosi rossi che mangiano i bambini o nei succhi di frutta sempre rossi.
Inoltre, in Olanda e Belgio, sono già disponibili alimenti di questo tipo. Anche la Francia non ne è esente, con alcuni store che vendono snack fatti con le creature di “A Bug’s Life”.
Attualmente, almeno per quanto riguarda appunto l’Europa, dal 24 gennaio 2023, Bruxelles ha dato il via libera alla commercializzazione della farina di grillo domestico, una grandissima fonte proteica contenente fibre, calcio, vitamina B12, ferro, fosforo e sodio (fonte, Butta La Pasta). Ha un sapore simile alla nocciola e può essere impiegata bene con tutti i prodotti da forno, sia dolci che salati, come pane, crackers, pizze, torte e biscotti. Viene anche aggiunta come fonte proteica negli shake, smoothie, e negli yogurt. Questa farina, al momento, ha un costo piuttosto elevato, pari a 75/80 euro al chilo.
L’Unione Europea ha di recente autorizzato anche l’immissione nel mercato continentale delle larve del verme della farina minore, della larva gialla della farina e della Locusta migratoria.
Sembrerebbe, almeno per il momento, che non vi siano rischi dal punto di vista nutrizionale. Anzi, gli insetti sono una grandissima fonte di proteine, come dicevo sopra, alla pari di carne, uova e pesce. E in alcuni Paesi asiatici, sono secoli che gli insetti fanno parte della dieta della popolazione locale.
E visto che sul nostro pianeta sono più numerosi gli esseri a sei o più zampe rispetto agli umani, tanto che sembra di vivere a Insettopia (sempre per citare il capolavoro della Pixar), questa può essere un’altra soluzione succulenta (perdonate il gioco di parole) per ovviare ai problemi degli allevamenti intensivi e alla produzione di carne per una popolazione che sta crescendo sempre di più (si stima infatti che entro il 2050 saremo in 9 miliardi e passa… un po’ affollata la Terra, no?)… di conseguenza, se non si vareranno proposte per arginare il problema, un giorno non ci sarà più cibo per tutti.
Ma forse il punto non è aumentare la quantità di cibo attraverso nuove tecnologie, ma razionalizzare quello che viene già prodotto, cioè diventare consumatori più responsabili. Perché probabilmente il vero problema non è la soluzione, ma lo spreco e una sbagliata distribuzione nel mondo regolata da business e politiche dedite all’arricchimento.
Di nuovo, vi è tanto entusiasmo (o forse no?), ma ancora poche risposte a troppe domande.
Possiamo solo sperare nel progresso scientifico e aspettare un futuro dove, come diceva Winston Churchill nel 1931: “Sfuggiremo all’assurdità di far crescere un pollo intero, solo per mangiarne il petto o l’ala, facendo crescere queste parti in un ambiente adatto.”