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Politically correct: evoluzione della lingua o conformismo linguistico?

Credo che sia scontato affermare che l’evoluzione dell’uomo, nel corso dei secoli, sia andata pari passo ai cambiamenti della vita quotidiana: da che mangiavamo carne di gazzella cruda cacciata nella savana con una lancia, siamo arrivati a realizzare capolavori di arte culinaria, addirittura utilizzando la cucina molecolare; da che andavamo in giro nudi e liberi, adesso ci ricopriamo esageratamente seguendo i canoni della Milano Fashion Week; ma anche la lingua, dacché emettevamo versi per comunicare, siamo arrivati ai dizionari e da qui, l’uso improprio o meno delle parole.

Ed è proprio quest’ultimo aspetto del progresso che prenderò in considerazione, perché più controverso, partendo dalla fatidica parola neg*o.

Dacché indicavamo, appunto, un africano come un neg*o, ora lo si identifica, come persona di colore, nonostante questo termine censurato non sia nato con intenzioni dispregiative, ma si tratta semplicemente di uno sviluppo della parola latina niger/nigra/nigrum, impiegata soprattutto in funzione aggettivale. Infatti, secondo Wikipedia, la parola neg*o è un’espressione usata solo per indicare certe etnie provenienti dall’Africa subsahariana (e poche regioni dell’Asia), caratterizzate dal colore di pelle scuro. Negli anni ’50 del Novecento, invece, neg*o indicava, implicitamente, una “razza inferiore”, poiché all’epoca era ancora presente il famigerato concetto di razza e non di etnia.

Insomma, dove voglio arrivare? Anche la nostra lingua, come detto sopra, ha subìto un’evoluzione, dettata da una serie di contesti sociali che si sono creati soprattutto durante il Ventesimo secolo, partendo dall’America degli anni ’30, per poi arrivare al culmine negli anni ’80, dando vita al cosiddetto politically correct, nato all’epoca con buone intenzioni.

La sua origine è, comunque, alquanto ambigua, in quanto esistono diverse ipotesi a riguardo. Tuttavia, quella più accreditata è che sia nato dagli intellettuali statunitensi di sinistra e di stampo comunista.

Esso ha contribuito a bandire, purtroppo solo verbalmente, qualsivoglia forma di discriminazione nei confronti delle minoranze etniche, religiose o sessuali, con ideali egualitari e progressisti.

Ma, forse, questo concetto ci sta sfuggendo un po’ di mano, negli ultimi anni.

Perché dico ciò? E perché voglio parlarvi del politically correct e provare a capire se sia davvero solo un avanzamento della nostra lingua o se si stia trasformando in un abuso della stessa?

Ve lo spiego subito.

Nel mese di febbraio dell’anno corrente 2023, sui social e sui giornali è apparsa una notizia sconvolgente e oserei dire inquietante, soprattutto per chi, come me, è appassionato o studioso di letteratura e si mangia i libri a colazione: la Puffin Books, casa editrice britannica, ha deciso di mettere mano ai romanzi del celebre scrittore Roald Dahl (deceduto nel 1990) e cambiare radicalmente certe parole, nonché espressioni e addirittura intere descrizioni, per conformarli al linguaggio più inclusivo di oggigiorno. E non è la prima volta che succede.

Tra i termini presi di mira figurano “grasso”, “pazzo” e “brutto”, ma anche “madre” e “padre”… secondo loro, per essere più inclusivi, bisogna parlare di “genitori”, ma vi pare? E ancora, alcuni termini inglesi, come “female”, sono stati soppiantati da terminologie più moderne e meno sessiste, come “women” (non credo che questo cambiamento in particolare sia stato percepito qui in Italia, poiché la traduzione sarebbe comunque “donna”). Ma non si sono fermati a questo, oh no: hanno persino deciso di scrivere dei piccoli passaggi di proprio pugno, che nulla hanno a che vedere con la scrittura di Dahl. Per esempio, nel romanzo “Le streghe” (pubblicato nel 1983), dove figura una descrizione su come le streghe siano calve e indossino delle parrucche, è stato aggiunto: “Ci sono molte altre ragioni per cui le donne potrebbero indossare delle parrucche e certamente non c’è niente di sbagliato in questo.”. Ma che cavolo! È una strega! Come dovrebbe essere descritta? Come una fata che fa la pubblicità dello shampoo?!

Insomma, sotto gli occhi di tutti, è stata commessa un’azione gravissima, ovvero modificare un’opera scritta da qualcun altro. E ciò che peggiora la questione è il fatto che siano stati gli eredi dell’autore stesso a dare il permesso a questo atto di deliberata censura.

Su Variety, un portavoce della Roald Dahl Story Company ha giustificato questa presa di posizione con: “Vogliamo assicurarci che le meravigliose storie e i personaggi di Roald Dahl continuino ad essere apprezzati da tutti i bambini di oggi. […] Il nostro principio guida è stato quello di mantenere le trame, i personaggi e l’irriverenza e lo spirito tagliente del testo originale. Eventuali modifiche apportate sono state piccole e ponderate attentamente.”.

Posso sbilanciarmi e dire che il solo leggere questo comunicato stampa mi ha fatta veramente inca**are? Soprattutto perché io sono un’appassionata, con una laurea in letteratura e scrittrice, quindi mi sento presa in causa.

Ma prima di sparare a zero contro queste parole, è meglio precisare un paio di cosette.

Analizziamo, prima di tutto e in maniera estremamente sintetica per non scrivere un papiro d’Egitto, la narrativa di Roald Dahl.

Cominciamo con il dire che egli nacque nel 1916, quindi viene ovviamente catalogato come scrittore del Novecento. Ricordiamo poi che il politically correct è nato come un vero e proprio disciplinamento linguistico per contrastare la discriminazione delle minoranze etniche, religiose, sociali e sessuali e che, come ho già detto sopra, ha trovato terreno fertile negli anni Ottanta. La maggior parte dei suoi romanzi, come per esempio “I Gremlins”, “James e la pesca gigante”, “La fabbrica di cioccolato” (sì, per chi non lo sapesse, Roald Dahl è il padre di Willy Wonka), “Furbo, il signor Volpe”, “Matilde” o il già citato “Le streghe”, sono stati tutti pubblicati prima o appena all’inizio degli anni Ottanta.

Ora, dato questo quadro storico, di cosa parlavano i suoi libri? Si trattava, per lo più, di romanzi per ragazzi, con un linguaggio accattivante e innovativo per l’epoca che vi ho appena citato. I suoi protagonisti sono tutti giovani che affrontano immense difficoltà, possibilmente senza una vera figura genitoriale al proprio fianco, alle prese con un mondo fatto da adulti spietati e senza scrupoli. Come le malvagie zie di “James e la pesca gigante” o l’estrema povertà in cui vive Charlie in “La fabbrica di cioccolato”. Tutte queste storie sono intrise di una singolare magia che assume una connotazione quasi normale, si può dire quotidiana, come in “Matilde”.

E molti di questi capolavori letterari hanno generato delle trasposizioni cinematografiche che sono diventate, a loro volta, delle perle miliari del cinema. I personaggi di Roald Dahl, a tratti palesemente grotteschi e caricaturali, sono entrati nell’immaginario collettivo.

Come quello di August Gloop, uno dei cinque fortunati bambini che hanno trovato il biglietto dorato nelle tavolette di cioccolato Wonka.

Credo che chiunque sappia di chi stia parlando. E a proposito, quanto diamine è inquietante e geniale la sua resa cinematografica nel remake firmato da Tim Burton nel 2005? Ho sentito di bambini che hanno avuto gli incubi con quella sottospecie di facocero “enormemente grasso” che mangiava qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano.

Ops… scusate, non si può dire “enormemente grasso” come scriveva Roald Dahl, ma solo “enorme”.

E Matilda, in “Matilde”, non legge più Rudyard Kipling (perché razzista), ma Jane Austen (perché donna). E anche qua stendiamo un velo pietoso. Come fai a cambiare una storia come “Il libro della giungla” (appunto, di Kipling) con una melensa storia d’amore, un super harmony (per quanto rispetto io possa provare per la grande scrittrice Jane Austen e mi inchino a lei)? Non è la stessa cosa! Cambia completamente la personalità della nostra famosa “Matilda 6 mitica”, trasposizione cinematografica del libro di Roald Dahl del 1996.

Non oso immaginare la descrizione della Signorina Trinciabue (personaggio cardine dell'infanzia di tutti noi) con il politically correct.

Ecco, dunque, perché mi ha fatta decisamente imbestialire il comunicato stampa di cui vi parlavo sopra: perché non si tratta di piccole modifiche ben ponderate, ma di uno stravolgimento vero e proprio della narrativa di questo scrittore, che ha acquisito fama proprio grazie a questo tipo di scrittura estremamente originale e che non si conformava assolutamente alla morale novecentesca. Quindi, al contrario di quanto è stato affermato, non è stata rispettata “l’irriverenza e lo spirito tagliente del testo originale”, portando a un inevitabile ribaltamento del senso dell’opera, considerando, appunto, il contesto novecentesco in cui essa è stata scritta.

Ci stiamo forse trasformando nella distopica società descritta da George Orwell nel suo famosissimo romanzo “1984”? Nella storia, il protagonista Winston Smith è un impiegato del Partito Esterno e ha il compito di “correggere” qualsiasi libro o articolo di giornale pubblicato in precedenza, nonché di modificare la storia scritta, per dare più credibilità al Partito stesso.

Fortunatamente, la casa editrice pare abbia fatto un passo indietro da questo scempio, dopo una valanga di insulti piovutale addosso non solo dal grande pubblico del web, ma anche da parte di stimate personalità del mondo letterario come lo scrittore americano-britannico e indiano Salman Rushdie, che ha twittato: “Roald Dahl non era un angelo, ma questa censura è assurda. Puffin Books e gli eredi di Dahl dovrebbero vergognarsi.”.

Anche Paola Mastrocola, scrittrice italiana, ha avuto da ridire in merito: Riscrivere un libro è un atto di violenza inaudita.”.

A quanto pare, per accontentare tutti, la casa editrice avrebbe deciso di ripubblicare sia l’edizione modificata che quella originale intoccata.

 

Si può cantare vittoria, dunque? Assolutamente no, perché adesso, nel mirino del politically correct e della cosiddetta ideologia woke (letteralmente “sveglio”, in inglese, riferito come uno “stare all’erta” per quanto riguarda possibili ingiustizie sociali e razziali) ci sono i romanzi dell’agente 007 James Bond, personaggio nato dalla mente di Ian Fleming.

Questo perché certe espressioni razziali utilizzate nella trascrizione di questi libri non sono più adeguate. Ecco quindi le modifiche, con espressioni del tipo “Persona nera” o “Uomo nero” (ma che cos’è l’uomo nero? Il Boogeyman o il Babau?).

Tuttavia, almeno in questo caso, lo stesso Ian Fleming avrebbe autorizzato, prima della sua dipartita nel 1964, tali tipi di modifiche.

Il punto, alla fine, qual è? Che il politically correct, evidentemente, sta andando un po’ troppo oltre con la questione sull’inclusione e sull’annullamento di ogni tipo di discriminazione.

Una nobilissima causa, nata con lo scopo di abbattere certe atrocità idiomatiche e superare razzismo, omofobia e quant’altro, si sta trasformando mano a mano in un ridicolo circo.

Infatti, non a caso, negli ultimi anni, il politically correct è finito nell’occhio del ciclone di un gran numero di critici e opinionisti, nonché di una consistente fetta di pubblico, perché si sta arrivando sempre più alla conclusione che quella che doveva essere un’evoluzione positiva della lingua si stia trasformando sempre di più in un conformismo linguistico, una sorta di linguaggio che sta portando non all’annullamento della discriminazione, ma all’omologazione completa.

Per non parlare di come questo “nuovo” modo di esprimersi venga ormai palesemente strumentalizzato in politica, ma su questo punto mi fermo, proprio per evitare qualsivoglia forma di propaganda, in modo da rimanere neutrale. Anche se ci sarebbe molto da obiettare.

Non mi credete? Allora pensiamo a tutte le iniziative intraprese recentemente (e con recentemente intendo negli ultimi anni), dettate dal politicamente corretto.

Nel 2018 scoppiò una polemica sul marocchino. E no, non stiamo parlando di immigrati, parliamo del marocchino che si prende al bar da bere. Si era arrivati a domandarsi quanto fosse politicamente corretto ordinare una bevanda con un nome tanto dispregiativo… semplicemente assurdo.

Oppure, giusto poco tempo dopo, i famosi cioccolatini svizzeri, i Moretti, esistenti fin dal 1946, sono scomparsi dagli scaffali della catena di supermercati Migros, perché accusati di razzismo. Beh, direi che il cioccolato che viene accusato di razzismo faccia piuttosto ridere. E ciò perché nel loro Paese sono conosciuti anche come Mohrenkopf, ovvero “testa di moro”.

O ancora, a fine 2021, la Commissione Europea aveva proposto ufficialmente di eliminare l’utilizzo dei nomi cristiani (come Maria) e di non nominare più il Natale in quanto tale, ma di soprannominarlo “Periodo delle feste”.

O addirittura, volevano abolire l’utilizzo di espressioni come “Signore e signori”, “Mr. o Mrs.” se non richieste dall’interlocutore, perché sessiste.

Tutto semplicemente aberrante.

Tra l’altro Maria è un nome così importante!

Io immagino una scena di un futuro distopico, dove al bar, per ordinare un marocchino, bisogna fare prima un miliardo di giri di parole su quanto si conosca a memoria il discorso “I have a dream” di Martin Luther King (discorso meraviglioso che è entrato a far parte della nostra storia) o di quanto da piccoli si sognava di avere la pelle nera (quella ero io, che mi vedevo pallida come una mozzarella, essendo bionda e con gli occhi azzurri, e volevo essere invece color cacao, complice anche il fatto che avessi una bellissima amica di colore).

Scherzi a parte, il dramma odierno del politically correct è proprio la pagliacciata che scaturisce da “lotte” così superficiali.

Non solo, associato al poltically correct vi è anche quello di una censura sempre più dilagante e oserei dire pericolosa, ai limiti di una società semi dittatoriale, con il fenomeno della cancel culture che sta prendendo sempre più piede. Quest’ultima espressione indica una cancellazione vera e propria di un individuo o di un atto dal mondo reale e dal mondo virtuale, poiché soggetto a un gran numero di critiche.

Ed è quello che è avvenuto, a tutti gli effetti, con i romanzi di Roald Dahl: l’eliminazione di parole che sono, tutto d’un tratto, scomode e considerate non adeguate alla società di oggi.

E si parla “solo” di letteratura, figuriamoci a cosa si può arrivare partendo da ciò. A bruciare i libri sul rogo come nel periodo nazista?

Le pagine di storia possono essere riscritte per elaborare una versione più consona a ciò che la società vuole insegnare (e diciamocelo chiaro e tondo, è già capitato).

Per non parlare dell’assurda censura che deve essere necessariamente applicata se si parla di certi personaggi storici come Hi***tler (non è un errore di battitura, gli algoritmi mi stroncherebbero se scrivessi il nome per intero).

Davvero pensano che cancellare il nome di un mostro simile possa in qualche modo rimediare alle atrocità da lui o chi per lui commesse?

E nel settore cinematografico sono stati addirittura eliminati alcuni film considerati razzisti. Avete capito bene, eliminati. Ovvero, sono quasi impossibili da trovare.

A proposito, se qualcuno di voi sapesse dove posso vedere il film “I racconti dello zio Tom”, del 1946, candidato agli Oscar del ’48, con l’Oscar onorario all’attore di colore James Baskett, per favore mi contatti! (Tutti questi dettagli per far comprendere, parlando in maniera sarcastica, quanto razzismo sia presente in un film dove uno dei protagonisti è di colore)

Altri, hanno avuto una sorte “migliore”: quella di avere un bel bollino di “allarme politicamente scorretto”, dove c’è stato bisogno di piazzare un bel disclaimer a inizio pellicola, dove la casa di produzione o la piattaforma si dissociano dal comportamento xenofobo e razzista presente nella storia.

Usando un linguaggio da Oxford, bella parata di cu*lo.

E si parla di pellicole del calibro di “Via col vento”, “Forrest Gump”, “Colazione da Tiffany”, ma anche i classici della Disney, come “Il libro della giungla”, “Lili e il vagabondo”, “Dumbo” o “Peter Pan”.

Ritorna la domanda di prima: si parla di un altro contesto storico, veramente si pensa che fare il Ponzio Pilato della situazione, in nome del politically correct, sia la scelta migliore?

E i live action di questi capolavori dell’animazione sono prova della profonda ipocrisia che si cela dietro a questo modo di agire, parlare e, ormai, pensare.

La Disney si preoccupa più di trasformare la fata madrina di “Cenerentola” in un nero omosessuale o Ariel de “La Sirenetta” in una sirena di colore, adesso tocca a Trilli di “Peter Pan” che, da fatina bianca, bionda e con gli occhi azzurri, diventa di colpo iraniana.

Piuttosto che creare storie originali con nuovi personaggi di etnie differenti, la Disney si preoccupa di lanciare un finto messaggio di inclusione cambiando radicalmente quelli esistenti ed entrati ormai nella cultura odierna con una certa immagine.

Come se lanciassero il messaggio che un attore di colore non sia abbastanza per ricoprire un ruolo tutto suo, ma che debba acquisire la fama sostituendo uno vecchio.

E il discorso varrebbe anche al contrario: perché non fare una Pocahontas norvegese? O una Moana di “Oceania” bionda e con gli occhi verdi che viene dalla Russia? O un Machiavelli di colore, già che ci siamo… ah beh, a quello avevano già pensato.

Il Machiavelli nero, ideato dalla BBC per una serie tv per bambini su Leonardo da Vinci nel 2019.

Insomma, a conti fatti, il problema del politically correct non è il politically correct in sé, perché, ripeto, esso nasce con l’intento ben preciso di eliminare la discriminazione e favorire un dialogo molto più inclusivo. Ma questo proprio a causa di un contesto storico in cui il razzismo ecc. erano ancora presenti in dosi massicce, soprattutto in certi Stati nel mondo. Non che il razzismo sia scomparso, sfortunatamente. Bisogna contestualizzare ciò che ho scritto.

Il vero problema è l’evoluzione, anzi l’involuzione che questo fenomeno sta subendo.

Adesso è una farsa, quasi ci si ride sopra. Ma chi dice che in futuro non si possa trasformare in una dittatura del linguaggio, del comportamento e del pensiero? Omologando la popolazione e facendo credere che qualunque modo di esprimersi sia sbagliato. Come dice Glenn Lee Beck, commentatore politico e conduttore radiofonico statunitense: “Il politically correct non ci cambia, ci zittisce.”

Non esisterebbe più “persona di colore” perché troppo discriminatorio, quando in realtà abbiamo tutti “colori” diversi. C’è chi è bianco, nero, giallo, rosso o blu… e quindi? Il giusto sta nel riconoscere e nell’accettare assolutamente, senza riserva, queste “diversità”. Anzi, vorrei proprio vedere la scena di un identikit poliziesco politicamente corretto (“Mi dica, signora, com’era fatto l’uomo che l’ha aggredita?” – “Beh aveva due braccia, due gambe, capelli neri e poi la pelle era colorata, ma non posso dire come, perché altrimenti sarei razzista.”)

Bisogna essere in grado di capire quando un certo linguaggio può offendere e quando, al contrario, non arreca danno.

Anche perché, sfortunatamente, non sarà certo un’imposizione idiomatica a cancellare piaghe come la discriminazione e il razzismo. Esse esisteranno per sempre, perché insite nella natura dell’essere umano, creatura ignorante, con la paura atavica del “diverso”.

Storia, letteratura, cinema, arte, non devono essere toccate dal politicamente corretto o dalla cancel culture, poiché portatrici di chiari messaggi del passato, di contesti a noi estranei, di racconti di un’epoca che non è vero che non ci appartiene più, proprio perché solo guardandosi indietro e accettando e affrontando gli errori commessi, si può provare a rimediare. Il passato aiuta a migliorare il futuro.

E non è cancellando che si risolvono i problemi, perché eliminando, facendo finta di niente, forzando un’inclusione portata agli estremi come sta avvenendo oggigiorno, non si fa altro che generare ulteriore odio e sdegno.

Perché come dice Gerard Rancinan, fotografo francese ancora in vita: “Viviamo in un mondo dove le parole hanno perso il loro valore, il politically correct ha ucciso la creatività. Si reagisce con sdegno solo davanti a fatti o dichiarazioni che non hanno importanza. Il mondo è clonato anche mentalmente e nessuno ha l’energia per reagire e prevenire un’ulteriore perdita di significato.”

Scritto da Camilla Marino