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C’era una volta e c’è: il Plasmodium falciparum

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Con il passare del tempo, progressivamente, la medicina ha compiuto e ancora dovrà compiere passi da gigante nel trovare le cure alle diverse malattie che, fino a un’epoca non molto lontana, risultavano letali. Tuttavia, ancora oggi, esistono virus, batteri, parassiti e quant’altro, capaci di farci preoccupare al solo sentirli nominare, perché tuttora, sono dei non facili avversari da sconfiggere.

Ultimamente, qua in Italia, più nello specifico nella regione della Puglia, c’è stato molto rumore: la preoccupazione di un possibile ritorno della malaria nel nostro Paese.

Vorrei inoltrarmi, dunque, in un approfondimento generale, per comprendere meglio questa pericolosa malattia, anche perché si avvicina l’estate e le partenze per i Paesi esotici sono decisamente gettonate.

Suddividiamo, come al solito, dall’inizio e definiamo, quindi, sotto il punto di vista scientifico, che cos’è la malaria, anche se, certamente, molti di voi già sapranno a grandi linee di che cosa si tratta.

La malaria è una parassitosi, ovvero una malattia infettiva causata o trasmessa da parassiti. I parassiti in questione sono i Plasmodi e ne esistono diversi tipi, ma quello di cui bisogna inquietarsi in maniera peculiare è il Plasmodium falciparum, poiché è quello con il più alto tasso di mortalità.

Questo protozoo, termine con cui si designa un Regno di essere viventi composto sia da organismi unicellulari che pluricellulari, tra eucarioti come piante, funghi e animali, ed eterotrofi, ovvero organismi che si nutrono di altri organismi viventi, quindi batteri e parassiti, non infetta le persone così, a caso. Ha bisogno di un vettore, ovvero di una sorta di “veicolo” che gli permetta di entrare nel nostro sistema. E questo veicolo è una particolare specie di zanzara: la Anopheles. Nessun altro genere di insetti trasporta questo parassita. Effettivamente, chiunque l’abbia creata (non sapendo se nasce prima l’uovo o la gallina), ha deciso di renderla il Caronte di altri brutti malanni, quali: vermi parassitari del genere Dirofilaria e il virus della febbre O’nyong’nyong, una malattia nata in Uganda che comprende rash, dolori addominali e agli occhi, letargia e ingrossamento dei linfonodi.

Siccome sappiamo molto bene che le zanzare amano soprattutto i climi caldi e umidi, ne consegue che la malaria sia un grosso problema nell’Africa sub-sahariana, nei Paesi tropicali come i Caraibi, nelle zone equatoriali, ma anche nelle pianure dell’America centrale, della Cina e dell’India.

Pertanto, anche le paludi non sono esenti, tutt’altro! Tanto è vero che, dando un’occhiata all’etimologia del nome, si scopre che “malaria” deriva da una locuzione medievale nostrana: “mala aria”, cioè “cattiva aria” (grazie, Capitano Ovvio).

Un termine italiano? Eh già, perché fino a pochi decenni fa, la malaria era una bella gatta da pelare anche nel nostro Bel Paese, coprendo una superficie di ben 7 milioni di ettari. Fino al termine del XIX secolo, si registravano 15.000 morti all’anno, in Italia.

Per l’appunto, un altro nome con cui era nota questa malattia in passato era “paludismo”, proprio perché tipica delle zone paludose. Ad ogni modo, le aree più interessate erano, naturalmente, le regioni meridionali, con un clima decisamente più “adatto”.

Fu poi nel Settecento che la parola venne utilizzata per indicare una qualità di febbre molto violenta e mortale, che veniva contratta al di fuori dei nostri confini durante l’estate.

Il periodo di incubazione della malaria va da un lasso di tempo di nove o dieci giorni, fino a un massimo di quaranta, dove la persona infetta, inizialmente, non mostra sintomi.

Ragion per cui si raccomanda, al ritorno da una zona a rischio, di effettuare immediatamente dei controlli per una diagnosi precoce, nel caso di alzamento della temperatura.

Ma, ufficialmente, quando venne scoperta? Recenti studi hanno dimostrato come la malaria sia nemica dell’Uomo da circa 50.000 anni.

150 milioni di anni fa c’erano le zanzare esattamente come ai giorni nostri. In un campione d’ambra cristallizzata trovato in una grotta del Myanmar (“Jurassic Park” insegna), è stato rinvenuto in esemplare di Priscoculex burmanicus, l’antenata della zanzara anofele.

Le più remote testimonianze che si hanno in merito sono due: la prima proviene dalla Cina, da testi risalenti al 2700 a.C., circa; la seconda la si deve al celebre medico Ippocrate, che descrisse questa febbre intermittente, all’interno dei suoi scritti “Sulle Epidemie”, contenuti a loro volta in un insieme di opere in greco antico che trattano di medicina, intitolate “Corpus Hippocraticum”, la cui datazione precisa rimane ancora incerta.

Per quanto, indi, la malaria fosse presente in Italia, fu grazie agli antichi Romani e alla loro sapiente capacità agricola e di bonifica territoriale, che essa venne circoscritta e successivamente controllata.

Ma nel V secolo d.C., l’Impero Romano d’Occidente cadde ed ecco che la malaria riprese il sopravvento nella nostra penisola.

Fu proprio un italiano, l’anatomista, patologo e clinico Giovanni Maria Lancisi, durante il XVIII secolo che fece due più due: quale animale o meglio, quale insetto infestava le paludi? Esattamente la zanzara. Quindi, secondo lui, la zanzara era trasportatrice di “esseri animati” (espressione usata da Lancisi) capaci di infettarci. Annotò questa ipotesi nel suo volume “De noxis paludum effluvis eomque remediis”, pubblicato nel 1716.

Tuttavia, la vera e propria conferma arrivò solo nel 1880, grazie al medico militare francese Charles Louis Alphonse Laveran, che identificò la presenza del parassita (l’”essere animato” di cui sopra) all’interno dell’insetto. Questa scoperta gli valse il Premio Nobel per la Scienza nel 1907. Il parassita venne poi battezzato come plasmodio da altri due italiani: Ettore Marchiafava e Angelo Celli.

Ulteriore conferma la diede Patrick Manson nel 1884 (tutti medici).

Ma il grande eroe di questa vicenda fu un altro medico, entomologo, zoologo e botanico italiano: Giovanni Battista Grassi. Egli identificò il genere di zanzara che trasmette i plasmodi, grazie principalmente alle testimonianze dei contadini, che raccontavano di essere infestati da una zanzara piuttosto grande, con ali grigie e macchiate, che compariva specialmente dopo il crepuscolo. Nel 1889 cominciò le sue ricerche per studiare al meglio il corso della malattia, partendo dalla malaria degli uccelli. L’uomo poté contare sul prezioso aiuto di un certo signor Sola, che si offrì volontario per farsi pungere da questi insetti in qualità di cavia. Ogni sera, Grassi lo faceva pungere da diverse specie di zanzara, senza mai riscontrare alcun tipo di sintomatologia. Decise poi di utilizzare una zanzara che aveva già punto più persone che, in seguito, si erano ammalate. E fu così che anche il signor Sola si beccò la malaria.

In questo contesto, Grassi riuscì ad approfondire la questione, studiando al microscopio i gradi di infestazione e pubblicando, poi, i risultati delle sue ricerche nel volume risalente al 1900 “Studi di uno zoologo sulla malaria”.

Un contributo importantissimo arrivò anche dalle analisi effettuate da Camillo Golgi, tra il 1885 e il 1889. Fu lui, infatti, a scoprire nel dettaglio “che cosa” provoca la febbre: non è il plasmodio in sé a essere la causa della malaria, ma le spore che esso genera durante il suo ciclo riproduttivo. Queste spore prendono il nome di merozoiti e invadono il ciclo sanguigno dell’organismo ospite attraverso un processo chiamato schizonte, durante il quale i globuli rossi vanno in frantumi.

Grazie ai nostri studiosi compaesani (Golgi vinse il Premio Nobel per la Scienza nel 1906), cominciarono le prima campagne di debellazione in tutto il mondo, la prima delle quali ebbe luogo in Brasile nel 1905.

In Italia, la malaria venne totalmente debellata negli anni ’50, grazie alle azioni intraprese dalla Rockefeller Foundation: un’organizzazione filantropica americana che decise di controllare la malaria tramite l’eradicazione larvale, anziché la cura della patologia dei malati.

L’associazione promosse, negli anni ’20, il potente larvicida Verde di Parigi (aceto arseniato di rame).

Ma con cosa veniva e viene curata la malaria? Con il chinino, ovvero un alcaloide (sostanza organica azotata) che il popolo Inca, soprattutto in Perù, ricavava dalla corteccia di un albero tipico di quelle zone, chiamato Quina (o albero della china, in italiano). Intorno al 1600, questa cura tradizionale venne appresa anche dai popoli occidentali, grazie ai viaggi in sud America del gesuita Barnabé Cobo.

Il chinino e altri alcaloidi presenti in questa corteccia, aiutavano a mitigare i sintomi della malattia e a distruggerne i parassiti presenti nel flusso sanguigno.

Il chinino divenne ben presto uno dei farmaci più popolari e richiesti nel mondo, tanto è vero che la famiglia Florio, famosi per la creazione del tonno in scatola sott’olio a Favignana (ve ne parlo meglio QUI e QUA), iniziarono la loro attività commerciale a Palermo, con l’apertura della loro aromateria, dove producevano e vendevano il farmaco contro la malaria.

Ecco dunque il perché del loro conosciutissimo stemma: un leone ferito che si abbevera a una pozza di chinino.

Ciononostante, il chinino era una cura, ma non rendeva esenti dal rischio di ricadute.

Ancora oggi, comunque, viene utilizzato come principio attivo antimalarico, contro i crampi muscolari ed è anche, curiosità, un ingrediente dell’acqua tonica e del bitter al limone.

Esiste una curiosa leggenda vietnamita sull’origine della zanzara. Si dice infatti che essa sia nata da un amore tradito.

C’erano una volta, in un piccolo villaggio, una coppia di sposi che vivevano una vita molto umile. Nonostante la moglie aspirasse a un tenore di vita più lussuoso, i due vivevano felici.

Ma un giorno, la donna morì. Il marito, disperato, portò il suo corpo sull’alta montagna del genio della medicina e lo pregò di riportarla in vita. Impietosito, il genio della medicina acconsentì, chiedendo all’uomo tre gocce di sangue da versare sulle spoglie della moglie, affinché resuscitasse.

L’incantesimo funzionò, ma durante il viaggio di ritorno, un ricco uomo si invaghì della donna e la invitò sulla sua bellissima barca.

Dopo tanto tempo, la fanciulla si abituò alla nuova vita fastosa e piena di ricchezze, quindi non volle più tornare con il povero marito. Così, lui le chiese di restituirgli le tre gocce di sangue che le aveva donato.

Lei accettò e morì per la seconda volta, ma si reincarnò in una zanzara, che da allora infastidisce l’umanità, alla perenne ricerca delle tre gocce di sangue perdute.

Eppure, recentemente, nell’aprile dell’anno corrente 2024, come dicevo all’inizio dell’articolo, in Puglia è stata riscontrata la presenza della zanzara anofele ed è subito scattato il panico nella popolazione.

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dichiara che non c’è nulla da temere. La situazione è stata illustrata da Massimo Andreoni, direttore scientifico della Simit (Società scientifica degli infettivologi): la presenza di questa zanzara sul territorio non deve stupire più di tanto, dato l’alto tasso di immigrazione e di viaggi all’estero da parte degli italiani. Come ho spiegato fino a ora, però, è il parassita a essere la vera preoccupazione. Parassita che, al momento, in Italia non è presente.

Paolo Gabrieli, professore di Zoologia presso l’Università Statale di Milano, conferma quanto detto da Andreoni, aggiungendo che le zanzare anofele, in Italia, sono troppo poche affinché possa avvenire il ciclo naturale della malattia.

Cionondimeno, bisogna fare attenzione: con il riscaldamento globale e l’avanti e indietro dai Paesi africani, tropicali e asiatici, non si può negare un ritorno della malattia nel nostro Paese.

Beh, in realtà non c’è da stupirsi, considerando che la malaria è la seconda malattia più letale al mondo, appena dopo la tubercolosi.

Secondo i dati forniti dal World Malaria Report 2020, nel 2019, si sono contati 229 milioni di casi a livello globale, con un numero di decessi astronomico. 409 mila morti, di cui il 67% erano bambini al di sotto dei 5 anni.

Un articolo della fine di aprile di Aboutpharma ci dona un quadro molto preciso della situazione, specificando che il maggior numero di malati si trova, come sicuramente noto, in Africa: si stima che più del 90% degli infetti si trovi in questo continente.

Numero più recenti, datati 2022 e sempre forniti dal magazine online di cui sopra, non sono certo più rassicuranti: secondo l’OMS, la metà della popolazione mondiale correva il rischio di contrarre la malattia, con statistiche che mostrano come ogni minuto muoia un bambino al di sotto dei 5 anni.

Il numero dei casi e dei decessi, sempre nel 2022, è aumentato considerevolmente: 250 milioni e 608 mila morti di malaria.

Rimane dunque una domanda: come fare? Esiste un vaccino?

Posso confessare di aver riso amaramente quando ho letto il primo consiglio da parte dell’OMS per non ammalarsi? Il consiglio in questione è: non fatevi pungere. Grazie, suggerimento decisamente prezioso.

Purtroppo, in effetti, questa è, al momento, l’unica soluzione sicura per non contrarre la malattia. Niente paura, se curata in tempo, il recupero e la guarigione sono totali.

Per quanto riguarda la questione vaccino, non siamo ancora arrivati a poter dire “sì, lo abbiamo certamente”. O forse sì?

Per essere precisi, al momento, esistono due vaccini contro la malaria. Il primo è stato prodotto dalla casa farmaceutica britannica GlaxoSmithKline e si chiama Mosquirix (RTS,S/AS01, se volete complicarvi la vita). La sperimentazione di questo farmaco è avvenuta tra il 2019 e il 2021, somministrabile in quattro dosi a partire dai cinque mesi di età. Il 6 ottobre 2021, l’OMS lo ha autorizzato e ne ha consigliato l’utilizzo di massa sui bambini delle zone ad alto rischio. La vaccinazione massiccia avrà luogo proprio quest’anno e interesserà il Ghana, il Camerun e il Burkina Faso, per cominciare. Fortunatamente, questo vaccino sembra essere piuttosto efficace, considerando che, durante la sperimentazione, è riuscito a prevenire il 40% dei casi e il 30% dei casi più gravi, su un numero di 800 mila bambini.

Ciononostante, come si evince, non è abbastanza.

Il secondo farmaco, prodotto dall’Università di Oxford nell’ottobre del 2023, si chiama R21/Matrix-M, e l’OMS lo ha introdotto nell’elenco dei vaccini prequalificati per ampliare l’accesso alla prevenzione alla malaria attraverso la vaccinazione.

Anche questo è stato concepito per essere somministrato in quattro dosi: le prime tre di vaccino vero e proprio e una di booster dopo un anno. I dati forniti indicano un livello di efficacia pari al 77%, che non è affatto poco… Ma non è comunque 100.

Ecco perché il consiglio di base: “Mi raccomando, non fatevi pungere, zanzariere e spray anti-zanzare a go go.”

Per quanto riguarda i viaggi turistici, un vaccino con tale anticipo e richiamo sarebbe poco pratico. Esiste, per questo scopo, la chemioprofilassi, consigliata in relazione al Paese di destinazione, considerando anche la nuova multi resistenza perché questi insetti si stanno evolvendo e si stanno adattando appunto ai farmaci, come prevenzione, ricordando che si tratta solo di una profilassi (non mi sto sostituendo a un dottore, tutt’altro, è semplice informazione e comunque consultate sempre uno medico specialista. Le mie fonti sono CDI, Ministero della Salute, OMS e Ospedale Pediatrico Bambino Gesù).

Qui si conclude questa sorta di “promemoria-bollettino” sulla malaria, ricordando che è stata istituita una Giornata Mondiale contro la malaria, che cade il 25 aprile. Sperando che questi farmaci possano risultare certamente utili, altresì nel miglioramento della ricerca e della medicina, rimembro la frase del filosofo, teologo e studioso Erasmo da Rotterdam (1466 – 1536): “Prevenire è meglio che curare”.

Scritto da Camilla Marino