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Salviamo Kshamenk

Leggendo qua e là, mi sono imbattuta in un serie di articoli il cui titolo ha catturato fin da subito la mia attenzione: “Rinchiusa e dimenticata lì da 20 anni… Il drone riprende qualcosa di insolito.”.

Incuriosita, ho aperto i link e ho cominciato a leggere ed effettivamente mi sono ritrovata sconvolta dal contenuto.

Si parlava della cosiddetta orca dimenticata, battezzata Kshamenk, notizia a me totalmente sconosciuta.

Oggi voglio parlarvi proprio di questo cetaceo, che appartiene alla famiglia dei delfini, in questo caso un maschio, per fare un po’ di chiarezza sugli animali che vivono in cattività, sulla natura degli zoo e della differenza tra i giardini zoologici e le strutture riabilitative per le bestie selvatiche.

Partiamo da una semplice domanda: chi è Kshamenk?

È un’orca, appunto come dicevo sopra, che nel 1992 è stata catturata insieme ad altri tre suoi simili per essere esposti in una vasca di uno dei parchi di divertimento di SeaWorld. Di questo gruppo, l’unico sopravvissuto fu Kshamenk: infatti, uno dei cetacei venne rilasciato fin da subito perché troppo grande (gli è andata bene), il secondo morì purtroppo durante il trasporto, mentre il terzo, in preda alla disperazione, decise addirittura di suicidarsi sbattendo la testa contro le pareti della vasca che lo conteneva… Tutto ciò è crudele e disumano, non dovrebbe mai accadere.

Kshmanek, tuttavia, non rimase per molto tempo a SeaWorld, ma venne trasferito a Mundo Marino, un altro parco acquatico situato nella località costiera di San Clemente de Tuyù, in Argentina.

All’epoca della cattura, l’orca aveva tra i 4 e i 5 anni di età.

Una volta arrivato nella sua vasca, Kshamenk ebbe modo di approcciarsi con un’altra orca già presente nel parco, una femmina di nome Belén.

Sfortunatamente, quest’ultimo esemplare morì all’incirca un decennio dopo durante i primi anni 2000, lasciando dunque Kshamenk completamente solo.

Siamo nel 2024 e L’ORCA È ANCORA IN QUELLA VASCA, nella più completa solitudine, abbandonata a sé stessa, senza alcuna possibilità di interazione, tranne che con gli addestratori.

Il parco continua a sfruttare questo magnifico animale per il puro gusto di fare soldi, per poter lucrare sul divertimento di adulti e bambini. E a proposito di lucro: Mundo Marino, nel 2022, ha anche stipulato un accordo con SeaWorld dove si impegna, con prelievi forzati, a fornire lo sperma di Kshamenk, che servirà poi per ingravidare altri esemplari in cattività negli acquari.

Il mammifero marino è costretto in una vasca poco più grande di lui, privato in ogni modo dal poter compiere altre azioni oltre a quella di girare perennemente in tondo, senza alcuno stimolo visivo.

Sono già più di 700 mila le firme raccolte tramite le due petizioni di Change.org (di seguito vi darò i link per accedere a entrambe), aperte per liberare l’animale.

La prima (cliccate QUI per accedere) è stata avviata l’11 novembre del 2016 e a oggi ha raccolto ben 702.041 firme, compresa la mia (dato aggiornato in data 20 febbraio 2024, ore 12:29). Questa raccolta non serve solo a cercare di liberare Kshamenk dalla sua prigione, ma anche a tentare di porre fine agli spettacoli con gli animali all’interno dei parchi acquatici in Argentina.

La seconda istanza (cliccate QUI per visualizzarla) è nata recentemente proprio qui in Italia e sono state raccolte 15.166 firme, anche in questo caso ho contato la mia (dato aggiornato in data 20 febbraio 2024, ore 12:30), ed è incentrata sul trasferimento di Kshamenk in un Santuario adeguato.

Credo che sia superfluo sottolineare come la campana ascoltata da Mundo Marino, risuoni in modo completamente diverso, anzi opposto.

Naturalmente, il parco è contrario alla liberazione della maestosa creatura e afferma che essa, in realtà, sia stata salvata nel 1992, poiché arenata sulla spiaggia, insieme agli altri suoi simili di cui vi ho parlato sopra. Sempre secondo tale racconto, la riabilitazione fu alquanto prolungata e l’animale, incapace di tornare in natura perché ormai abituato agli umani e alle loro cure, vive tranquillo e sereno in cattività.

Secondo gli “esperti” di Mundo Marino, dunque, l’orca non vivrebbe affatto in condizioni di stress e non vi è sofferenza alcuna nella sua vita.

E invece Kshamenk soffre, soffre molto. Prova rabbia, depressione, isolamento, tutte condizioni evidenti negli episodi di ribellione nei confronti degli addestratori.

Ma non serve certo una laurea in biologia marina per comprendere il suo stato d’animo.

Guardate le foto della sua vasca, le immagini riprese da un drone e osservate quanto è piccola.

E immaginate, no anzi, rendetevi conto della terribile realtà: questa piscina è l’unica cosa che Kshamenk abbia avuto modo di vedere da più di 30 anni a questa parte e ci sta morendo, in totale solitudine.

Su una cosa, tuttavia, Mundo Marino tiene razón (“ha ragione”, tradotto in italiano): la magnifica bestia, al giorno d’oggi, sarebbe incapace di vivere allo stato selvatico, perché per troppi anni è stata confinata in pochi metri quadri di cemento.

Per questo, le petizioni di cui sopra, cercano di spingere al trasferimento di Kshamenk in un Santuario, cosicché possa vivere in condizioni di semi-libertà. Certo, verrà sempre curato e tenuto sott’occhio dagli umani, ma almeno potrà nuotare, socializzare con i suoi simili, avere più spazio ed essere finalmente più sereno e felice.

E non è solo Kshamenk a vivere, se di vita si può parlare, a stento. Molti zoo sono in verità delle prigioni mascherate.

Prima di continuare, però, voglio spendere due righe per raccontarvi qualcosa di più sulle orche.

Informandomi per scrivere questo pezzo, ho scoperto che le orche si trovano in tutti i mari e in tutti gli oceani del mondo, dall’Artico all’Antartico fino ai tropici, occasionalmente nel Mediterraneo, e nello Stretto di Gibilterra viene spesso avvistata una comunità di 32 esemplari esperti nella caccia al tonno rosso. Raggiungono una velocità di 55 km/h. Alcune popolazioni sono minacciate, appunto, sia dal loro utilizzo nei parchi marini, che per i conflitti con i pescatori o a causa dell’inquinamento e per la distruzione del loro habitat.

Sono animali incredibilmente intelligenti, possono raggiungere grandi profondità, fino ai 1000 m e oltre. Sono predatori, si nutrono di mammiferi, uccelli, tartarughe e ovviamente pesci e sono molto sociali. Hanno un loro sofisticato metodo di comunicazione, chiamato “dialetto orchese” e la loro intelligenza emotiva risiede in una parte del cervello che gli esseri umani non possiedono. Hanno consapevolezza di sé! Quando le troviamo spiaggiate è perché le più temerarie si sono spinte più in là per catturare l’otaria di turno.

Riprendendo il discorso degli zoo interrotto sopra, gli animali vengono costretti all’interno di strutture non sempre in grado di replicare il loro habitat di provenienza, in un’area limitata da barriere fisiche ben visibili.

Non solo, gli zoo vengono pubblicizzati come dei luoghi per lo sviluppo della cognizione sulla preservazione e sulla conoscenza della flora e della fauna che fanno parte del nostro bellissimo pianeta. Ne consegue che molti dei programmi istituiti dalle strutture siano adatti soprattutto a gruppi di bambini.

E questo sarebbe un nobilissimo scopo, se solo gli animali non vivessero ingabbiati e costantemente sotto stress. Per non parlare della diffusione di malattie da parte delle persone o legate alla scarsa e non accurata pulizia delle aree di reclusione, perché di prigionia si tratta.

Come si può capire se un animale è frustrato e stressato?

Ci sono alcuni comportamenti ripetitivi che, sono sicura, avrete avuto modo di notare in certi zoo: apatia, quindi le creature non interagiscono e non vi è reazione ad alcuno stimolo; autolesionismo, lo abbiamo detto prima con l’orca che ha deciso di suicidarsi, gli animali sotto stress si mordono la coda, si strappano ciuffi di pelo, tirano testate al muro e via dicendo; aggressività (eh, direi); pacing, ovvero camminare o nuotare avanti e indietro (l’espressione “camminare come un leone in gabbia” non l’ho di certo inventata io); circling, camminare o nuotare in cerchio (Kshamenk lo fa in continuazione, si stima che nel corso di una singola giornata compia almeno 500 giri della sua vasca); movimenti compulsivi della lingua, come continuare a leccare il muro; oscillazione della testa, delle spalle o del corpo intero; auto-pulizia eccessiva.

Alcuni di questi comportamenti erano una triste abitudine, purtroppo, nella tragica vita di Kiska, un’altra orca morta di recente nel parco acquatico di MarineLand, a Ontario (Canada), dopo 43 anni di prigionia.

La sua storia è forse ancora più terribile di quella Kshamenk: catturata nel 1979 quando aveva appena tre anni, insieme ad altri suoi simili (tra cui Keiko, la protagonista del film “Free Willy”), tra una vasca e l’altra, tutte di dimensioni estremamente ridotte, trovò tuttavia il conforto in Ikaika, un esemplare maschio che divenne il suo compagno e con cui diede alla luce ben cinque cuccioli. Ma questa, sfortunatamente, non è una storia a lieto fine: i cinque piccoli morirono tutti, senza raggiungere l’età adulta. E 12 anni fa, è passato a miglior vita anche Ikaika.

Immaginate solo il dolore che possa aver provato questo animale, perché come ho già scritto, è una specie molto intelligente ed empatica e alcuni studi stanno constatando come alcune razze animali, tra cui alcune famiglie di cetacei, abbiano una comprensione quasi umana del lutto, una sofferenza molto simile. In effetti, in alcuni casi, i ricercatori hanno notato come queste e altre creature eseguano veri e propri “riti funebri” per dare l’ultimo saluto a un membro del loro gruppo.

Kiska, dunque, non solo ha vissuto in pochi metri quadri di vasca, ma la sua esistenza è stata costellata da numerosi lutti, troppi da poter sopportare. Alcuni video nel web mostrano come, negli ultimi tempi, la sua salute fisica e psichica fosse gravemente peggiorata: rimaneva ferma, fissando il vuoto, con aria apatica; tirava continue testate ai muri della vasca, un comportamento evidentemente autolesionistico; era svogliata e presentava anche atteggiamenti piuttosto aggressivi.

Invane sono state le richieste degli animalisti per liberarla e così, lo scorso anno, ci ha lasciati. Possiamo dire che, almeno per lei, sia stata una liberazione: finalmente è in pace…

Ad agosto 2023, si aggiunge alla lista la morte dell’orca Lolita dopo 50 anni di prigionia nell’acquario di Miami, sola, in una vasca di cemento, dopo che le associazioni si battevano da tempo perché fosse trasferita in un Santuario in mare aperto.

Da una statistica del 2018 sono state stimate 60 orche in cattività.

Una delle fonti principali di stress, insieme allo spazio veramente esiguo è, manco a dirlo, la massiccia presenza umana. In alcuni casi, viene incoraggiato anche il contatto fisico tra persone e creature, soprattutto con gli infanti, in quanto gli “esperti” affermano che il legame che si instaurerà tra le due parti sarà unico, indimenticabile e persino costruttivo.

Certo, entrare in contatto stretto con un animale è qualcosa di magico, quasi sacro. Io, per esempio, ho nuotato fianco a fianco con i delfini a Cuba nel mar dei Caraibi, giocandoci. Ho accarezzato e tenuto in braccio un cucciolo di alligatore alle Everglades, in Florida, ho nuotato accanto a un dugongo e a una tartaruga centenaria nel Mar Rosso, fatto il bagno con testuggini marine in poco più di un metro d’acqua sulle coste dell’arcipelago delle Isole Gili, in Indonesia. Ho persino nuotato con gli squali con e senza shark cage, rispettivamente alle Hawaii, alle Maldive e in Messico. E ho anche socializzato con delle scimmiette tanto carine quanto dispettose nella Monkey Forest di Ubud.

Ma qual è il punto? Molti di questi erano animali abituati sì alla presenza umana, ma completamente (o quasi) liberi: nella mia esperienza a Honolulu ero io quella in gabbia! Immersa nell’Oceano Pacifico, con intorno squali tigre e longimano.

Ed è qui che entra in gioco il bioparco, una struttura che, a differenza di un giardino zoologico, ha comunque delle barriere (ve lo immaginate un leone libero di andare a zonzo per la Lombardia, per esempio? Sarebbe un bel guaio), ma quasi impercettibili. Gli spazi sono decisamente più grandi e permettono agli animali di correre, saltare, socializzare, stare tranquilli.

Anche non affermando che tutti gli zoo siano dannosi per la salute mentale e fisica delle creature, è d’uopo informarsi sulle direttive rispettate da una particolare struttura, fermo restando che non sono l’habitat originale dell’animale in questione.

In effetti, per quanto riguarda l’Italia, fortunatamente, le norme sono piuttosto rigide e dedite alla salvaguardia completa degli animali.

Sottolineo infatti che uno degli scopi principali di questi centri è quello di riabilitare alla Natura animali fino a quel momento rinchiusi in gabbia e relegati in cattività, come per esempio le bestie appartenute al circo, oppure i cuccioli abbandonati e in punto di morte, animali feriti che, se non curati in tempo, soccomberebbero secondo la selezione naturale.

Poi, naturalmente, la re-introduzione della bestia allo stato selvaggio dipende da una serie di fattori, che cambiano di caso in caso: gli animali nati e cresciuti in un bioparco, per esempio, non sarebbero mai in grado di vivere nella Natura selvatica, poiché non saprebbero come procacciarsi il cibo da sé o verrebbero uccisi da altri predatori. A volte, la re-introduzione avviene con successo, in altri casi è preferibile trattenere l’animale nel bioparco e fargli passare una vita lunga e contenta.

Mi ricordo quando, al Safari Park di Varallo Pombia (in provincia di Novara, Piemonte), ho giocato e coccolato un cucciolo di leone bianco. È stata un’esperienza davvero unica e indimenticabile, perché quello zoosafari era un ambiente adattato nella “giusta” maniera agli animali, liberi di girare e rilassarsi in spazi aperti relativamente grandi, imponendo alle persone regole rigide per un contatto sano e per niente traumatico per le bestie.

L’ho scritto al passato non perché il Parco Safari non sia più bello da visitare, ma solo perché non ho esperienze recenti di visita. Sono sicura e spero che abbia mantenuto certi parametri. Ci andrò di nuovo e ve lo farò sapere.

Tornando alle norme vigenti in Italia, il Decreto Legislativo 21 marzo 2005 n.73 ha messo in atto la direttiva Zoo, “relativa alla custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici”.

L’Allegato 1 di tale direttiva obbliga, cito, “a ospitare […] gli animali in condizioni volte a garantire il loro benessere e a soddisfare le esigenze biologiche di conservazione delle singole specie, provvedendo, tra l’altro, ad arricchire in modo appropriato l’ambiente delle singole aree di custodia, a seconda della peculiarità delle specie ospitate.”

Beh, mi sembra chiaro come il sole.

Ma anche senza dover andare a leggere ciò che è stato scritto nel decreto, fermandosi solo a riflettere un secondo, vi invito a immaginare uno scenario simile: siete costretti in una piccola stanza, senza aver modo di uscire, in solitudine o magari condividendo il poco spazio con qualcuno che forse non vi sta neanche troppo simpatico; la stanza è delimitata da sbarre e dall’altra parte, ci sono centinaia di persone che gridano, fanno baccano, vi fissano tutto il tempo, cercano di toccarvi, magari di tirarvi i capelli o di lanciarvi del cibo. Cibo a cui magari siete allergici, ma che mangiate comunque perché il frigorifero non è stato riempito adeguatamente. Immaginate di rimanere rinchiusi qui dentro non per una settimana o un mese, ma per più di 30 anni, forse anche per il resto della vostra vita, senza aver fatto nulla di cattivo al mondo.

Ecco come si sentono Kshamenk l’orca e tutti gli altri.

Ma noi umani siamo sempre troppo egoisti, vero? Abbiamo l’empatia più bassa di un sasso neanche coperto di muschio per tutto ciò che “non è umano”.

Alcune persone, banalmente per fare un esempio, non fanno nemmeno caso da quale tipo di allevamento arrivi la carne di cui si cibano, non controllano se le uova acquistate provengano da un allevamento all’aperto o in batteria, perché è più semplice ignorare o girarsi dall’altra parte. Si dice anche “beata ignoranza”.

E prima che si possa saltare a conclusioni affrettate, no, non sto inneggiando al veganesimo e al divieto di consumare carne o prodotti derivanti dagli animali (come il latte e le uova): la scelta della propria alimentazione deve essere una scelta libera, ricordando che l’essere umano è una specie onnivora, ovvero che si nutre sia di carne che di vegetali. E qui entra in gioco il paradosso della carne, cioè quella dissonanza cognitiva che chi mangia la carne ama allo stesso tempo tutti gli animali e non vuole in nessun modo causargli dolore. Ma questo è un discorso molto più ampio, da affrontare in un altro articolo.

Ciò che è importante non è dire di no al consumo della carne o dei prodotti derivati dagli animali (nonostante, ripeto, sia una libera scelta quella di voler diventare vegetariani o vegani), proprio perché è la Natura che ci ha creati in questo modo. È invece fondamentale cessare, con i giusti tempi e accorgimenti, gli allevamenti intensivi e in gabbia o di sfruttamento, promuovendo allevamenti sostenibili che si preoccupino del benessere degli animali, senza procurar loro sofferenza. (Gli allevamenti intensivi danno comunque da lavorare a molte persone, ecco perché le tempistiche giuste)

Non riusciamo mai a metterci nei panni delle bestie che maltrattiamo per la nostra comodità o il nostro intrattenimento, proprio perché è più importante il dio denaro e il senso di onnipotenza atavico dell’Uomo sulle creature più fragili.

Gli animali hanno sentimenti esattamente come noi, sono in grado di pensare come noi e soffrono come noi, ribadendo il concetto dell’equilibrio inevitabile in natura di erbivori vs carnivori.

Prima di terminare, vi segnalo un paio di documentari interessanti: uno è il famoso “Blackfish” del 2013, di Gabriela Cowperthwaite, che narra la drammatica storia dell’orca Tilikum, del parco acquatico SeaWorld di Orlando, in Florida, che dopo 30 anni di cattività e stress, nonché di crudeli addestramenti a cui erano sottoposti questi animali, è “impazzita”, uccidendo tre addestratori, trascinandoli in acqua e provocandone l’annegamento. La pellicola non vuole essere ovviamente una denuncia verso il cetaceo, tipo “orca assassina”, ma una luce sul perché di certe reazioni, combattendo contro l’abuso degli animali.

L’altro reportage è sui delfini, che sfortunatamente vengono impiegati alla stessa maniera e forse di più delle orche: “The Cove”, del 2009, che ha vinto l’Oscar come miglior documentario nel 2010, diretto da Louie Psihoyos. Segue le vicende dell’attivista per i diritti dei cetacei Rick O’Barry, famoso per essere l’educatore dei cinque delfini catturati per le riprese del film “Flipper”. Da questa esperienza, O’Barry ha capito le ingiustizie causate agli animali sociali e intelligenti tenuti in cattività. Nel filmato troviamo anche la caccia annuale del delfino che avviene in Giappone da settembre ad aprile. In questa occasione, i delfini vengono catturati per essere tragicamente spediti negli acquari di tutto il mondo.

Concludendo, il grande scrittore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1891) diceva: “Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa e lasci la tua orma putrida dietro di te; purtroppo questo è vero per quasi tutti noi.”

 

Siamo una specie fortunata sulla Terra, dotata di pensiero, intelligenza ed empatia, usiamoli! Dimostriamo che anche noi possiamo essere degni di questo meraviglioso pianeta.

Scritto da Camilla Marino