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Il surreale ed erotico impatto pittorico di quel genio di Max Ernst

Oggi voglio parlarvi di un grandissimo artista, un pittore e scultore che visse nel Novecento e fu protagonista di una delle correnti artistiche più conosciute, bizzarre e geniali dell’arte contemporanea: sto parlando di Max Ernst. Ho avuto modo di visitare la mostra a Palazzo Reale a Milano, che purtroppo è conclusa, ma ho pensato fosse doveroso comunque parlarvene perché decisamente degna di nota. Sicuramente la troverete altrove, ma a prescindere dell’esposizione è giusto farvi conoscere questo grandissimo artista.

La sua mostra è stata un viaggio nella psiche, nel mondo dei sogni, dell’eros, della Natura. Si è trattato a tutti gli effetti di una messa in scena pittorica degli anni ’20 e ’30 del ventesimo secolo. Nella personalità di questo artista che, non so per quale arcano motivo, viene spesso lasciato da parte nell’immaginario comune dell’arte Surrealista (cedendo il posto a suoi contemporanei altrettanto celebri come Picasso, Frida Kahlo, Dalì o Magritte), si possono riscontrare tante influenze diverse che, però, convergono in uno stile unico, dove irrazionale e logicità si mescolano in un incredibile paradosso su tela, capace di rapire lo sguardo e tenerlo incollato all’opera per coglierne ogni suo dettaglio più nascosto.

E Max Ernst è un artista che impersona appieno tutte queste caratteristiche.

Egli nacque nella città di Brühl, nei pressi di Köln (Colonia), in Germania, nel 1891. Il contesto in cui visse negli anni dell’infanzia fu alquanto singolare, poiché il padre (Philipp Ernst) era un insegnante per sordomuti. E suo padre doveva volergli un gran bene, perché quando il pargoletto compì cinque anni, il genitore lo raffigurò nelle vesti di Gesù! (Beh, Max Ernst è un po’ il Messia del Surrealismo, il padre, in un modo tutto suo, ci aveva visto lungo!)

Prima di darsi anima e corpo all’arte, comunque, studiò filosofia e psicologia presso l’Università di Bonn, nel 1909.

E questa particolarità trasuda da ognuna delle oltre 400 opere che erano in esposizione a Palazzo Reale a Milano, molte delle quali hanno visto per la prima volta in assoluto il grande pubblico.

Dipinti, appunti, statue, fotografie, collage, disegni, tutto è stato posizionato in modo da creare un percorso espositivo che non solo funge da viaggio biografico di questo pittore, ma soprattutto psichico, con ben nove stanze tematiche, ognuna incentrata su un lato particolare della sua arte.

Camminare per queste stanze è stato un po’ come passeggiare nel cervello di Max Ernst, saltellando da un neurone all’altro, esplorando ogni “camera” della sua mente (mi è sempre piaciuto immaginare la mente di ognuno di noi come un insieme di stanze variegate, ciascuna unica e irripetibile).

Compiendo questo pellegrinaggio pittorico nel “cranio” di Max Ernst, al di là della mostra, si arriva nella sua dimensione erotica, evocata dal ménage à trois con Gala e Paul Élouard, di cui è prova il “Ritratto di Gala”, olio su tela del 1926, dove la femminilità di Gala pare tanto solenne quanto intimidatoria nella sua sensualità… Forse anche leggermente inquietante con quel volto nascosto nell’ombra, nonché dal matrimonio con Marie-Berthe Aurenche che è stata, con tutta probabilità, la musa per l’olio su tela del 1927 “Il bacio”, con due figure che, in maniera sinuosa, si fondono in un abbraccio e in un bacio vagamente provocante. Non so cosa fareste voi, ma per quanto mi riguarda, sono rimasta incantata da questo quadro: quelle curve, quel movimento delle forme che richiamano due amanti che stanno per fare l’amore… Mi sono sentita un po’ come se stessi osservando di nascosto una scena intima dal buco della serratura.

Questo non fu l’unico matrimonio di Max Ernst, perché ne ebbe diversi. Tra le sue relazioni amorose figura l’unione nuziale con Peggy Guggenheim, avvenuta negli Stati Uniti, nel 1941.

"Il bacio", olio su tela, 1927... e poi ci sono io, che immagino di spiare i due amanti dal buco della serratura.
"Ritratto di Gala", olio su tela, 1926

Un’altra opera che richiama l’erotismo, ma che allo stesso tempo fonde i temi più cari agli artisti surrealisti, come la psicoanalisi (e nel caso specifico, l’alternarsi della vita e della morte, della luce e delle ombre), è sicuramente “Gli uomini non ne sapranno nulla”, olio su tela risalente al 1923. Opera ovviamente ricca di simbolismo surrealista, costruita secondo uno schema ben preciso, essa sembra quasi raccontare una storia… no, anzi, elaborare una tesi: ogni elemento surrealista è posizionato con cura e logica meticolose, ricordando a tutti gli effetti un rebus che solo i prescelti, coloro che conoscono appieno questo tipo di arte, possono comprendere facilmente. Infatti, sono presenti simboli legati all’alchimia, all’astrofisica e alla magia. In essa si può anche notare, se si guarda con attenzione, la forma di una maschera.

"Gli uomini non ne sapranno nulla", olio su tela, 1923

Come vi dicevo sopra, Max Ernst trasse molta ispirazione dagli artisti suoi contemporanei, primo fra tutti De Chirico, con la sua pittura metafisica (vi parlerò meglio di questo concetto in un altro articolo, dedicato a questo pittore) e le sue città semi abbandonate. Questa influenza, secondo il mio punto di vista, è parecchio riscontrabile nel dipinto “La città intera”, olio su tela risalente al 1936-37, nonostante Max Ernst avesse una personalità già affermata in quegli anni. Un dipinto che dona una sensazione quasi di angoscia, poiché ci si trova dinnanzi a una città in lontananza di cui non si conosce nulla e che sembra essere abbandonata da anni, un guscio vuoto che una volta conteneva tanta vita.

"La città intera", olio su tela (tecnica del "frottage"), 1936-37

Mentre un’opera palesemente ispirata all’arte di De Chirico è sicuramente la “Pietà o la rivoluzione di notte”, olio su tela del 1923: allusione chiara alla figura della Pietà, ma che si distingue in quanto portatrice del messaggio surrealista, evitando di esprimere lo stesso pathos delle Pietà che noi tutti conosciamo e abbiamo in mente (per chi non ce l’avesse presente, la Pietà, nell’iconografia cristiana e artistica, rappresenta la deposizione di Gesù Cristo dalla Croce, con la Vergine Maria che prende il corpo morto del figlio tra le braccia… quindi, “te credo” il pathos). L’immobilità e la mancanza voluta di qualsivoglia espressione da parte dei personaggi ritratti da Max Ernst, fa subito pensare ai manichini senza volto di De Chirico.

La prima impressione che si ha quando si osservano i dipinti di Max Ernst è un insieme di stili diversi. E no, qui non si parla affatto di plagio, ma di una ricerca di uno stile proprio. Ricerca che ha dato ottimi risultati, portando a opere che narrano non tanto la vita quanto la psiche di questo Maestro.

"Pietà o la rivoluzione della notte", olio su tela, 1923
Ecco l'opera di Giorgio De Chirico, "Il figliol prodigo", tempera e olio su tela del 1922. Esteticamente, la costruzione si avvicina molto alla Pietà di Max Ernst, con padre e figlio come protagonisti.

Ogni sua pennellata, ogni forma che lui ha dato alle proprie statue è una rappresentazione fedele del suo sguardo sul mondo, di come egli lo vedeva e lo percepiva, il tutto attraverso un filtro puramente onirico, fantastico e a tratti decisamente spaesante, angosciante, quasi inquietante e di difficile interpretazione.

"Justitia" o "Bottega di macellaio", olio su tela, 1919
"Oedipus Rex" o "Edipo Re", olio su tela, 1922

E proprio parlando di realtà che lo circondava, nel viaggio all’interno della sua testa c’è posto anche per la Natura, con i quattro elementi (acqua, fuoco, terra e aria). Fu proprio l’aria a dare vita a uno dei miei dipinti preferiti di questo artista: l’olio su tela del 1927 “Monumento agli uccelli”. Anche su questo dipinto mi sono soffermata per minuti e minuti: con quel cielo celeste come sfondo, questi uccelli che volano leggiadri, con membra quasi liquide… dona un senso di pace!

Legato all’acqua si può ammirare, tra gli altri, un dipinto a tecnica mista su tela risalente al 1926, “Mare e sole”; con il fuoco, Max Ernst creò un olio su tela di grande impatto visivo, “Arizona Red”, del 1951; infine, per la terra, neanche a dirlo, c’è “La foresta”, olio su tela del 1927-28.

Tutte opere che richiamano perfettamente l’elemento a cui si ispirano, una rappresentazione fedelissima e reale di Madre Natura e delle sue meraviglie, così come anche certi incubi che essa può generare.

"Monumento agli uccelli", olio su tela, 1927
"Mare e sole", dipinto a tecnica mista, 1926
"Arizona Red", olio su tela, 1951
"La foresta", olio su tela, 1927-28
"Foresta e colomba", olio su tela, 1927. Dippinto appartenente alla serie di opere ispirate all'elemento della terra

Ho appena accennato una tecnica mista ed è qui che vi posso dire che Max Ernst fu il creatore di alcuni sistemi di pittura che gli artisti contemporanei e successivi utilizzarono per le proprie opere.

C’erano: il frottage, che è praticamente quello che abbiamo fatto tutti noi quando eravamo bambini alle elementari nei laboratori creativi, quando si metteva un foglio su una superficie e si calcava quella superficie con la matita; il grattage, dove vengono applicati più strati di vernice su una tela e, in un secondo momento, quelli più superficiali vengono grattati via, creando dei giochi tattili e visivi; l’oscillazione, ovvero una tecnica antenata del dripping usato da Pollock, dove si buca una lattina piena di vernice, la si appende a un filo e la si fa oscillare sulla tela; il collage, anche questo un evergreen dei laboratori creativi di tutti i pargoli, dove si ritagliano e incollano i materiali prescelti per assemblare un’immagine; la decalcomania, dove la vernice allo stato liquido viene trasportata sulla tela tramite l’ausilio di una lastra di vetro o un foglio di carta.

L’opera che vi ho citato sopra, “La città intera” è un esempio di tecnica del frottage.

"Un tessuto di menzogne", olio su tela, 1959. In questo trionfo di ogni elemento della Natura, sono presenti ben 55 arance, pesci, uccelli e volti, tra cui quello di una donna che guarda verso il basso. E voi quante figure riuscite a scorgere?
"La festa a Seillans", olio su tela, 1964
"Un orecchio prestato", olio su tela, 1935
"Jeunes gens piétant leur mère", olio su tela, 1927

E poi, a Max Ernst piaceva rappresentare il movimento, creature uscite fuori dalla sua fantasia che si muovessero nei suoi quadri, dotate di vita.

Ecco dunque che nacque uno dei suoi più grandi capolavori, l’opera che ai giorni nostri funge da suo biglietto da visita, tanto da essere stata scelta come immagine di presentazione per la mostra a Palazzo Reale: “L’angelo del focolare” (o “Il trionfo del surrealismo”… direi che questo titolo è tanto chiaro quanto azzeccato), olio su tela del 1937.

Esso raffigura una bestia mostruosa e uccelliforme che sembra quasi eseguire una danza sfrenata e senza controllo, che porta distruzione su qualsiasi cosa possa toccare. Questa creatura non è altri che una rappresentazione dell’Europa che sta andando incontro a un disastro di proporzioni enormi: la Seconda Guerra Mondiale.

Il muso di questo strano essere, effettivamente, è riuscito a rendermi inquieta. Sarà perché il becco è dotato di denti, sarà perché mentre osservavo attentamente quest’opera mi sembrava quasi che questo scherzo della Natura lanciasse un ruggito mescolato a un grido deforme, sarà per quel paesaggio quasi desolante dove questo rapace abnorme si dimena selvaggiamente, ma questo spettacolo grottescamente magnifico mi ha fatto percepire a tutti gli effetti una tragedia, una catastrofe imminente. Un po’ come quando vedi il mare ritirarsi all’improvviso, perché sai che sta per arrivare uno tsunami e che devi correre per salvarti.

Mentre la osservavo attentamente, mi ha ricordato molto una composizione artistica simile, nata dalla mano di un altro famosissimo artista, ovvero Dalì. In effetti, ho provato la stessa sensazione di angoscia, con il cuore in gola, fin quasi al terrore, con il suo “Morbida costruzione con fagioli bolliti: premonizione di guerra civile”, un olio su tela del 1936. Anche questo dipinto, infatti, come si evince dal titolo, rivelava, in maniera quasi profetica, che sarebbe avvenuto un fatto storico orribile.

"L'angelo del focolare" o "Il trionfo del surrealismo", olio su tela, 1937
"Morbida composizione con fagioli bolliti: premonizione di guerra civile" di Salvador Dalì, olio su tela, 1936
Dettaglio de "L'angelo del focolare"

E per concludere, rispondo alla domanda che qualcuno di voi si sarà sicuramente posto leggendo questo articolo, perché mi rendo conto che, per i profani, Surrealismo possa dire tutto e niente: che cos’è il Surrealismo?

Si tratta di un movimento artistico e letterario nato nella Parigi degli anni ’20 del Novecento. Con il termine “movimento artistico” non intendo uno strano ballo “alla Zumba”, ma una corrente (non quella del Golfo) artistica (qualsiasi arte in generale) che si promuove come rivoluzionaria, una sorta di ventata d’aria fresca nella quotidianità, una novità, per renderla semplice.

E qual è la novità con cui il Surrealismo entra a gamba tesa durante il Ventesimo secolo, con il suo Primo Manifesto sul Surrealismo, scritto da André Robert Breton (poeta, saggista e critico d’arte francese) nel 1924?

Le parole chiave del Surrealismo sono due: irrazionale e sogno. Un viaggio attraverso i meandri più profondi della psiche (in quel periodo storico Freud aveva raggiunto la notorietà) per dare vita a mondi fantastici e, manco a dirlo, surreali, presi direttamente dall’universo onirico.

"Crocifisso", olio su tela, 1914

Comprendere un artista del genere, mi rendo conto, non è affatto semplice, così come può risultare complicata la comprensione di uno stile così astratto come, appunto, il Surrealismo.

Ma il bello del Surrealismo e di artisti come Max Ernst, è proprio questo: la creazione di un mondo derivante dal sogno che racconta la nostra psiche, una visione fantastica che racconta accadimenti reali, viaggi nel subconscio che rivelano pensieri nascosti.

Perché come diceva lo stesso Max Ernst, morto a Parigi nel 1976: “Per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi, ma per comprenderla bisogna chiuderli.”.

Scritto da Camilla Marino