Quando clicchi su Google per cercare informazioni sul tanto atteso film di “Barbie”, approdato da pochi giorni nelle sale cinematografiche, la pagina, “magicamente”, si vela di uno scoppiettante color rosa.
Nel cast troviamo una Margot Robbie perfetta per il ruolo della bambola più popolare al mondo (sapevate che per girare la scena dei piedi di Barbie presente nel trailer ci sono voluti 8 ciak? Margot Robbie, per realizzarla, era sorretta da una sbarra) e un ossigenatissimo Ryan Gosling nei panni del suo eterno fidanzato Ken (anche se quei capelli fanno pensare più a una sorta di incursione genetica dei Malfoy di “Harry Potter” o dei Targaryen de “Il Trono di Spade”).
Da mesi non si parla d’altro, sui social imperversano meme sull’arrivo del film, del connubio Barbie-Oppenheimer (filmone firmato Cristopher Nolan uscito al cinema in contemporanea) e il mitico rosa è diventato, possiamo dire quasi ufficialmente, il colore dell’anno. E prima di addentrarmi in questo “circo” scatenato dalla pellicola, vi narrerò alcune piccole curiosità.
Quando vi ho detto che il mondo si è tinto di rosa, in un certo senso, non scherzavo affatto: per realizzare i costumi e il mondo di BarbieLand, la regista Greta Gerwig, la production designer Sarah Greenwood e la scenografa Katie Vernice, hanno voluto utilizzare la giusta tonalità distintiva per eccellenza di Barbie, ovvero il rosa fosforescente dell’azienda Rosco. Nel film, la CGI (cioè la computer grafica) è stata sfruttata ben poco, perché BarbieLand è stata costruita realmente a grandezza naturale ed è stata tinta tutta con pennellate e pennellate di questo particolare colore. Sul web giravano notizie altisonanti come “Il mondo è rimasto senza rosa” o titoli simili… Effettivamente, i rifornimenti dell’azienda che produce questa tinta sono momentaneamente terminati: la realtà è anche legata a una serie di problemi di carenza di materiali precedenti causati sia dal fermo della pandemia Covid, che dall’ondata di freddo che ha colpito il Texas nel 2021. L’azienda, quindi, per accontentare la produzione cinematografica, ha dato fondo a tutte le proprie scorte, che verranno, ovviamente, rinnovate.
Tra l’altro, sapevate che il rosa sembra essere il colore più antico al mondo? Uno studio del 2018 ha rilevato la presenza di questa colorazione in molte rocce risalenti a più di un miliardo di anni fa, causata dalla presenza di fossili di un mastodontico numero di cianobatteri (organismi unicellulari oggi conosciuti come alghe azzurre o azzurro-verdi).
Ma il rosa, nell’antichità, non era presente solo in Natura, perché le guerriere e le cacciatrici delle tribù che popolavano le Ande (in Perù) circa 9 mila anni fa, indossavano abiti in pelle realizzati con l’ocra rossa, un pigmento dell’ossido di ferro che è da sempre un colorante naturale, così come gli Antichi Egizi, che lo utilizzavano già nei prodotti di cosmetica (l’ocra, sulla pelle e sulle labbra, acquisiva questa tonalità).
Durante il periodo del colonialismo, cioè a partire dal XV secolo, il rosa era un colore che andava molto di moda nella cosmesi, perché simbolo di bellezza, amore e sessualità. La domanda di questa tinta era così alta, che gli europei furono i principali responsabili di un massiccio disboscamento in Brasile durante il XVIII secolo, perché i pigmenti rosa venivano ottenuti dalla corteccia e dalla linfa del pernambuco, un albero importante e tipico della regione, chiamato anche pau brasil, letteralmente dal portoghese albero brasile. Nello stesso periodo, un’altra fonte da cui veniva ricavato il colorante naturale rosa chiamato carminio, era una particolare specie di libellula, la Orthemis discolor.
Le difficoltà nell’ottenere questa tonalità, a differenza del rosso che era sempre più accessibile, in quei secoli, portarono il rosa a essere quindi sinonimo di ricchezza, agiatezza e distinzione dalla massa, proprio perché richiesto dalle classi sociali più agiate.
Ma attenzione: il simbolismo legato a questo colore non è universale. Bellezza, dolcezza, romanticismo, sessualità e femminilità, sono rosee caratteristiche in Occidente, mentre in Giappone il rosa è un colore più maschile, perché ricorda i classici fiori di ciliegio, che venivano associati ai giovani guerrieri che sarebbero periti in battaglia.
O ancora, in Cina il nome “rosa” viene tradotto come “colore straniero”, dato che questa tinta non esisteva. Furono gli scambi commerciali con l’Occidente a farlo scoprire al popolo cinese.
Inoltre, in psicologia, il rosa, secondo alcune ricerche condotte tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, è un colore dall’effetto rilassante, perché è stato dimostrato quanto la presenza di questa tonalità rallenti i battiti cardiaci e allenti la tensione muscolare.
Ma tornando a Barbie, l’omonimo film non solo ha superato a livello di incassi “Oppenheimer” (almeno per il momento), ma in questi 17 giorni è andato oltre il miliardo di dollari.
Ciò che mi ha portato a scrivere questo pezzo non è la volontà di redigere una mia elaborata opinione professionale sulla pellicola (dico “professionale” perché una delle mie lauree è proprio in cinema), quanto invece una riflessione più o meno approfondita su quello che è stato e continua a essere un vero e proprio fenomeno sociale legato alla famosa bambola, compresi i continui dibattiti di natura più o meno femminista che orbitano attorno alla plastificata bionda con gli occhi azzurri… vorrei dire anche la mia.
Scorrendo la home di Instagram, mi sono imbattuta, tempo fa, in un reel della pagina di Will Ita (che vi linko qui) che mi ha fatta pensare sulla questione e mi ha portata a cercare di rispondere, come tanti, a qualche domanda: che cos’è esattamente Barbie? Un baluardo della cultura femminista o un affossamento della figura femminile che la rende oltremodo superficiale? Oppure è una semplice e palese grande opera di marketing?
Anche perché dopo una particolare scena presente nel film (un tributo a “Matrix”, cult del 1999, diretto dalle sorelle Wachowski), la richiesta delle Birkenstock Arizona è aumentata del 110%.
Andiamo con ordine e partiamo dalla vera storia della creazione di questa bambola, che nel teaser trailer del lungometraggio, viene sintetizzata in una scena tributo al film capolavoro di fantascienza di Kubrick: “2001 Odissea nello Spazio” del 1968 (più tardi vi elencherò i numerosi easter egg oltre questi già citati).
Tutto ebbe inizio con un lampo di genio di Ruth Handler, moglie del fondatore dell’azienda di giocattoli Mattel e diventata in seguito presidente dell’azienda. Nata nel 1916 e venuta a mancare nel 2002, un giorno di metà del XX secolo, notò che sua figlia Barbara non giocava come tutte le altre bambine: infatti, tutte le ragazzine dell’epoca giocavano a “fare le mamme” e “le donne di casa” con bambolotti che avevano tutte le caratteristiche dei neonati, come a far pratica per un futuro ruolo “imposto” dalla società di allora.
Barbara, la bambina, a differenza loro, snobbava queste bambole, preferendo invece ritagliare delle figure di donne, modelle et similia dai giornali, dilettandosi con queste figure di carta. Ma Barbara non fingeva di essere una mamma, le sue “bambole di carta” potevano essere quello che volevano: una volta erano veterinarie, un’altra donne d’affari, un’altra ancora delle campionesse sportive, insomma… erano vere e proprie donne che vivevano una vita da adulte, che scrivevano la propria identità e realizzavano i propri desideri, lontane dai canoni sociali dell’epoca, che volevano le donne dietro ai fornelli e “dietro” al marito.
Vedendo che la figlia creava vere e proprie storie, riflettendo contesti più adulti e maturi, Ruth ebbe l’idea di creare una bambola proprio con questi connotati, così propose questa sua intuizione al marito Elliot, che era, come vi ho già accennato, il co fondatore della casa di giocattoli Mattel, produttrice poi di Barbie.
Elliot, all’inizio, non approvò questa, a dir suo, bislacca idea di creare una “donna in miniatura” (e mi verrebbe da dire, scherzosamente… uomini, siete sempre dieci passi indietro!), ma cambiò idea quando, durante un viaggio in Germania, scoprì che la patria dei würstel e dei crauti aveva realizzato una bambola di questo tipo: Bild Lilli, un personaggio fumettistico che rappresentava una donna bellissima che si guadagnava da vivere seducendo vecchi ricconi (aveva già capito tutto dalla vita?).
Elliot, vedendo che Bild Lilli stava riscontrando un certo successo, approdando pure negli USA, decise che era il caso di riconsiderare più seriamente quella “stramba idea” della moglie sulla bambola adulta. Così, la Mattel acquistò i diritti di Bild Lilli, la tolse dal mercato ed esattamente il 9 marzo del 1959, nacque, dalle sue ceneri, Barbara Millicent Roberts, per gli amici Barbie (nome dato proprio in onore della figlia Barbara).
La doll, bionda, dalle curve meravigliose, gambe lunghe e snelle, seno prosperoso e bellissima (le sue misure, se lei fosse di dimensioni umane, sarebbero altezza 1,75 cm, 91 cm di seno, 46 cm di vita e 84 cm di fianchi), approdata sul mercato con un costume zebrato decisamente “roar” per l’epoca, divenne fin da subito una celebrità, protagonista di una miriade di lungometraggi indirizzati al pubblico infantile.
La Mattel creò un’intera biografia di Barbie, con tanto di personaggi secondari, come la sorella Skipper, la prima amica storica Midge (tra l’altro è lei la Barbie Incinta messa in vendita, secondo la storyline della bambola ha avuto ben tre figli), le amiche Teresa e Christie (la prima afroamericana della linea Mattel) e il già citato fidanzato Ken (anche lui porta il nome di uno dei figli di Elliot e Ruth).
Nel 1985, addirittura il celebre pittore pop Andy Warhol realizzò un dipinto di Barbie.
Qualche anno prima, nel 1970, arrivò anche la prima Barbie snodata, con ginocchia, caviglie e polsi piegabili (e le bambine e ragazzine come mia madre, all’epoca, impazzirono di gioia quando si ritrovarono questa bambola tra le mani, finalmente addio rigidità!) Per la flessibilità completa bisognerà aspettare, tuttavia, il 2002.
La Barbie era così tanto popolare che eclissava la vendita di qualsiasi altra bambola, tant’è vero che nel 2001, la MGA Entertainment introdusse nel mercato una serie di doll rivali: le quasi altrettanto famose Bratz, dotate di un fisico caricaturalmente sproporzionato (testa grande, occhi a gatto con lunghe ciglia, labbra grosse e carnose, gambe più lunghe del busto e piedi di dimensioni notevoli per sbizzarrirsi con le scarpe più cool e alla moda).
Nonostante ciò, Barbie rimane ancora oggi un’icona per eccellenza.
Per spiegare il fenomeno, dobbiamo partire dalle controversie legate alla bambola super bionda.
Come ho accennato sopra, il fisico di Barbie è molto particolare e rappresentava un modello estetico quasi impossibile da replicare nella realtà. Le misure, nel corso del tempo, sono state poi corrette, anche per attirare una fetta di pubblico più giovane, con forme più da adolescenti.
Fin da subito, molti genitori espressero un certo malcontento proprio in merito a queste proporzioni, aggiungendo che un così esplicito e prosperoso seno su una doll per bambine fosse fuori luogo, a quei tempi.
Infatti, uno dei cavalli di battaglia nelle aspre critiche mosse contro Barbie, era l’accusa di spingere inconsciamente le ragazzine verso l’anoressia, proprio per cercare di emulare quel fisico perfetto che nel mondo reale non esisterebbe nella donna adulta. Effettivamente, questo “biasimo” venne fomentato anche dalla messa in vendita del modello Slumber Party, dove la bambola, tra i vari accessori, disponeva anche di una bilancia settata sui 50 kg, un peso troppo basso considerata la statura di Barbie (parliamo sempre ipotizzando che questa biondona esista a grandezza naturale).
Effettivamente, io che sto scrivendo sono alta 1,74 cm, bionda, con gli occhi azzurri, sono magra, ma peso comunque tra i 57 e i 58 kg, con misure 90, 64 e 83, a conferma che Barbie era lontana dalla realtà.
Per questo e per un’altra serie di letture errate della natura di Barbie, nel corso degli anni, la bambola acquisì la nomea di “ochetta” senza tanto cervello, che si preoccupava principalmente di curare in maniera quasi maniacale il proprio aspetto estetico e di condurre una vita estremamente superficiale (certo che, però, accusare una bambola di curare eccessivamente il proprio aspetto e di fare la vida loca… è un po’ too much. Puntare il dito contro un oggetto inanimato come se fosse una persona vera… è un po’ da visionari, forse).
Persino alcuni dizionari nostrani riportano, nella definizione di Barbie, anche un senso spregiativo, ovvero una donna dall’aspetto troppo curato e artefatto, che ricorda proprio la bambola.
I movimenti femministi, all’epoca, colpevolizzavano Barbie di non essere un simbolo “girl power”, ma uno stereotipo di commercializzazione estrema, lo sfruttamento delle forme e delle frivolezze femminili semplicemente per fare soldi.
Complice anche il film “Mean Girls” (del 2004, con protagonista Lindsay Lohan, accompagnata da una giovane Rachel McAdams e una altrettanto giovane Amanda Seyfried), commedia teen tanto amata dalle ragazze della mia generazione.
Ricordate come veniva chiamato, nel film, il trio delle ragazze più popolari, belle e cattive della scuola? Esatto: le Barbie. Erano tutte e tre fissate con l’estetica, con la dieta, con il rosa e una di loro non brillava certo per intelligenza (chi si ricorda della scena dove la suddetta Barbie dichiara di avere il potere di prevedere l’arrivo della pioggia toccandosi il seno, mentre sta già piovendo? Pura poesia…).
Anche la celeberrima canzone “Barbie Girl” degli Aqua non ha aiutato, in quanto sottolineava la vuotaggine che regna sovrana nel “plastic world” (“mondo di plastica”) in cui vive Barbie. Infatti, la Mattel aveva deciso di portare in tribunale il brano, citandolo in giudizio per diffamazione e violazione del diritto di autore. La band danese-norvegese si è difesa spiegando che la canzone era una semplice parodia, non volevano arrecare alcun danno alla bambola.
Io stessa, per via del mio aspetto fisico, sono stata “vittima”, per così dire, di questo cliché: come vi ho già scritto sopra, sono alta, bionda, con gli occhi azzurri e prima di conoscermi o sentirmi parlare, oplà, incarno da sempre la cosiddetta “Barbie bionda, bambolina carina ma non con chissà quale cervello”… Ma vi assicuro che non è così.
E sì, a ricadere in questo luogo comune ignorante e da quattro soldi sono stati in tanti.
Eppure, nonostante nel tempo, nella cultura popolare, si sia fatta strada questa visione per nulla positiva, Barbie è in realtà il simbolo femminista per eccellenza.
Invero, ella dimostra che si può essere donne bellissime e meravigliose capaci di poter fare tutto ciò che si vuole, rifuggendo dal primitivo e aberrante stereotipo legato all’aspetto fisico.
Barbie è proprietaria di quasi 100 animali e può svolgere più di 150 professioni, tra cui veterinaria, astronauta, cuoca, insegnante, dottoressa, guida turistica, pratica sport di ogni tipo (esiste una Barbie per ogni squadra dell’NBA, per esempio) ed è anche premio Nobel. Al contempo, può anche svolgere il ruolo di appassionata di shopping, sorella maggiore, madre, semplice donna in vacanza con amiche e fidanzato.
Non solo, Barbie si è dimostrata anche promotrice delle tematiche ambientali, svolgendo lavori come scienziata della conservazione, ingegnere delle energie rinnovabili, responsabile della sostenibilità e avvocato ambientale, con una linea di bambole realizzate al 90% con plastica riciclata proveniente dagli oceani.
Inoltre, come Greta Gerwig, la regista, mostra nel film appena uscito in sala, Barbie è una donna autonoma, profondamente indipendente: non convive con Ken, non dipende da lui, i due piccioncini si incontrano “sporadicamente” per fare determinate attività insieme e apparizioni in pubblico, ma è Barbie che ha il controllo della propria vita.
Nella pellicola (non faccio spoiler, tranquilli), viene sottolineato come tutte le Barbie che vivono a Barbieland, svolgano i lavori più importanti e svariati: pilota di aereo, giudice, avvocato e via dicendo. Mentre i vari Ken presenti si impegnano in attività ricreative da spiaggia.
Se ci pensate, è esattamente questo lo scopo che ha portato alla nascita di Barbie: l’evadere dal concetto semplicistico e limitante che una bambina o una ragazzina debba essere “costretta” a intrattenersi con giochi che la confinino unicamente in una figura materna, come succede in qualsiasi società patriarcale.
Se ci fate caso, Barbie ha affrontato un momento di crisi e di calo delle vendite proprio quando la Mattel decise di cambiare le forme della doll, rendendola così più un “giocattolo per bambini”, qualcosa di poco appetibile per ragazzine più grandi, che si allontanava dall’idea di “donna autonoma” che lei avrebbe dovuto rappresentare.
Inoltre, Barbie non è solo una donna matura, libera, intelligente e capace di ogni cosa, ma negli ultimi anni si è trasformata anche in una promotrice della cultura moderna: sono nate tante doll della stessa linea che impersonano personaggi pubblici di spicco (come Jane Goodall, per ricollegarmi al discorso sull’ambiente, una famosa etologa e attivista ambientale esperta sul comportamento dei primati) o determinate “condizioni fisiche”.
Mi spiego meglio: Barbie calva, Barbie in sedia a rotelle, Barbie con la vitiligine, Barbie con la Sindrome di Down, Barbie Curvy, Barbie Transgender e così via.
Capite dove voglio arrivare? Tutti questi tipi di Barbie nascono per dimostrare quanto si possa essere bellissime tanto quanto Barbie, ognuna a modo proprio, nonostante qualsiasi tipo di “difficoltà”. La Barbie Mania coinvolge tutti, a prescindere dal sesso, dal colore di pelle (ricordo che Barbie ha avuto più di 40 nazionalità) od orientamento religioso.
Anche se su quest’ultimo punto, si potrebbero sollevare un paio di dubbi: il Comitato per la Propagazione della Virtù e la Preservazione del Vizio (prego?) dell’Arabia Saudita (ah ecco), ha vietato la vendita di Barbie nel proprio Paese, in quanto portatrice di un messaggio peccaminoso per le giovani arabe, con i suoi abiti succinti e le sue forme procaci. Ma nonostante ciò, nemmeno l’Arabia Saudita ha voluto rinunciare totalmente a Barbie, così ha creato la sua versione islamica: Fulla, con indosso un bell’hijab, cambiando in questa maniera il senso della bambola, però. Questo succedeva nel 2003, perché con il nuovo film, a Dubai, con i prodigi della computer grafica e della tecnologia 3D, vicino al Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, una gigantesca Barbie esce da una scatola e si mette in posa nel suo classico costume da bagno zebrato, occhiali da sole e coda di cavallo, il look sfoggiato dalla prima bambola messa in commercio nel 1959.
E per quanto concerne il discorso sull’etnia, negli anni ’90 ci fu una seria polemica sulla commercializzazione di Barbie Oreo, nata da una collaborazione con l’omonima marca di biscotti: la Mattel proponeva due versioni della stessa bambola, una bianca e una afroamericana, ma il termine Oreo, negli USA, è anche un termine dispregiativo, che indica una persona di colore che ha gli atteggiamenti di un bianco. Per questa critica, l’edizione Oreo venne tolta dagli scaffali ed è, a oggi, una delle bambole più rare da trovare.
Ma la maggior parte di queste Barbie inclusive, che si allontanano dall’ideale di perfezione estetica, pur mantenendo una bellezza senza precedenti, sono state accolte molto positivamente dal pubblico. Le ragazze con la Sindrome di Down, per esempio, si sono dimostrate entusiaste durante il lancio dell’omonima linea di bambole, dimostrando che finalmente possono rispecchiarsi in una Barbie meravigliosa che le rappresenti appieno.
Proprio grazie a questa presa di posizione da parte della Mattel, ovvero quella di mettere in luce tematiche sociali attuali, Barbie si è discostata dall’immagine di “oca bionda” e ha ottenuto l’upgrade, per così dire, della vera donna simbolo di intelligenza e inclusione.
Non solo: Barbie, nel 2010, ha realizzato una raccolta fondi per la lotta contro il tumore al seno, con la vendita all’asta di una doll per il valore di ben 302.500 dollari, realizzata dal gioielliere australiano Stefano Canturi.
Barbie è diventata un’icona politica, proprio perché, forse indirettamente (perché non nasce con questo intento), ha spaccato in due l’opinione pubblica.
Tant’è vero che, a differenza delle femministe degli anni ‘60, che come dicevo detestavano Barbie in quanto promotrice di capitalismo e sessualizzazione, quelle odierne esaltano, invece, la Barbie originale, quella dalla bellezza perfetta, proprio per dimostrare che si può essere belle e sessualizzate, ma anche con un cervello pensante. Una cosa non esclude l’altra.
C’è anche un fenomeno particolare che sta prendendo piede, soprattutto sulla piattaforma di TikTok, ovvero quello delle cosiddette Bimbo. Questo termine indica, traducendo il Dizionario Urbano: “Una donna iper femminile che non giudica gli altri per le modifiche del corpo, ingenua e gentile, ha molta confidenza con sé stessa e con la sua sessualità.”. Quindi, sostanzialmente, le Bimbo rappresentano proprio quello stereotipo da cui Barbie vorrebbe tanto rifuggire e nel quale è stata segregata per così tanti anni.
Tuttavia, forse senza volerlo, il film di “Barbie” ha in qualche modo promosso questo fenomeno, quello della ragazza “tanto aspetto e poca materia grigia”. Nella pellicola vi è un’altra chiave di lettura, anche questa considerata dalle Bimbo come femminista: se è vero che Barbie può essere ciò che vuole, ella può anche essere una semplice “Barbie scema”.
Effettivamente, quella di diventare una donna che si preoccupa unicamente della propria apparenza, che vuole vivere di puro divertimento senza curarsi di niente di più rilevante, può essere considerata una libera scelta, una sorta di scelta femminista moderna.
E so che dopo aver scritto queste righe, centinaia di femministe, quelle vere, che hanno lottato per i nostri diritti e per una vera rivalsa storica, si staranno ribaltando. Io stessa non promuoverei questo lifestyle, ma sono anche dell’idea “Vivi e lascia vivere”. Contente loro, contenti tutti.
Nel titolo, vi parlo anche di “Barbie comunista”… lo so, è piuttosto ridicolo, ma a quanto pare non per il quieto vivere della politica internazionale!
Infatti, è stata vietata la proiezione del film sia in Libano che in Vietnam, per due motivi completamente diversi.
Nel primo caso, è stata accusata di promozione della omosessualità e di essere contro i principi morali e religiosi della nazione.
Nel secondo caso, invece, si fa riferimento a una mappa mostrata in una scena del film, ovvero una cartina disegnata in maniera piuttosto fantasiosa del “Mondo Reale”. Su questa mappa coloratissima, vicino all’Asia, compaiono delle linee tratteggiate che ricordano molto la cosiddetta “Nine-dash line”, in italiano “linea dei nove tratti”. In effetti, nel nostro mondo reale, queste linee rappresentano i possedimenti reclamati dalla Cina di una buona parte del Mar Cinese Meridionale, con basi militari ivi presenti costruite da Pechino e fondali ricchi di idrocarburi. E che c’entra il Vietnam? Hanoi ne rivendica la sovranità e intanto, a Washington, i repubblicani accusano Barbie di essere promotrice di espansionismo cinese, con addirittura la complicità della Casa Bianca!
Nell’era del complottismo, tutto è lecito, a quanto pare.
Ciò che veramente colpisce in “Barbie”, non è solo la chiave di lettura palesemente girl power che promuove l’uguaglianza tra i sessi e non il matriarcato, ma in qualche modo, si può vedere il film come una storia di formazione, la crescita di un personaggio dall’infanzia all’età adulta, con tutte le consapevolezze, a volte anche dolorose, che ne conseguono.
Ne è prova il passaggio da BarbieLand al Mondo Reale, anche questo segnato da un omaggio a “Il Mago di Oz” del 1939 (infatti, come Dorothy approda in un mondo fantastico e deve seguire una strada di mattoni per tornare a casa, anche Barbie deve seguire una via lastricata di mattoni per avviarsi fuori dal suo mondo di fantasia).
Nella storia, Barbie Stereotipo (è così che si chiama la protagonista della pellicola), per un motivo che non spiegherò proprio per non fare spoiler, affronta una serie di cambiamenti alquanto traumatici, tutti correlati a un unico fattore: la perfezione insita in BarbieLand, poiché tutte le Barbie sono bellissime, perfette e capaci, comincia a sparire.
Primi tra tutti, i suoi piedi iconici, sempre in punta, diventano piatti e poi arriva l’incubo di ogni donna: la cellulite.
Ma soprattutto, Barbie comincia ad avere pensieri inerenti alla morte (un altro easter egg, questa volta dedicato a “Shining”, altro capolavoro intramontabile di Kubrick del 1980, dato che sono proprio i pensieri di morte a portare alla pazzia Jack Torrence, il personaggio interpretato da Jack Nicholson).
La protagonista deve affrontare un viaggio nel Mondo Reale per capire il perché di questi avvenimenti. Quindi non si tratta solo di un viaggio fisico, ma introspettivo, un percorso di consapevolezza e auto affermazione.
Anche perché il contatto con il Mondo Reale, per lei, è una vera e propria doccia fredda: la nostra quotidianità è governata dalla sessualizzazione, dal patriarcato, da una società dove le donne, nonostante tutti gli sforzi di cui Barbie è anche sostenitrice, non hanno ancora il massimo potere e sono continuamente, chi più chi meno, sottomesse al volere e ai canoni maschili.
Ecco perché Barbie rappresenta a tutti gli effetti uno sviluppo, una maturazione identitaria: da bambine si crede, come è giusto che sia, di avere il mondo tra le mani, di avere le capacità di plasmare il proprio futuro come si vuole, senza difficoltà alcuna, la strada verso la vita sembra completamente spianata.
Questo è BarbieLand, praticamente un “The Truman Show” completamente rosa (avete indovinato, si tratta di un altro tributo alla pellicola del ’98).
Invece, piedi piatti, cellulite e pensieri di morte rappresentano la presa di coscienza sul fatto che la realtà non sia come se la immagina e come Barbie l’abbia vissuta fino a quel momento. La vita è costellata di imperfezioni, fallimenti, limiti e lotte che è necessario affrontare per autodeterminarsi, costruirsi una personalità e definire il proprio carattere.
Questo è il Mondo Reale, dove, nel lungometraggio, si scopre un altro riferimento, questa volta al film “Scandalo a Filadelfia” del 1940, dove recitava l’eterna Katharine Hepburn: come nella pellicola in bianco e nero, anche in “Barbie” sono il dolore e le difficoltà emotive che portano alla crescita personale del personaggio, risaltandone la bellezza.
E a un certo punto, sempre senza fare spoiler, il rosa diventa giallo, che ricorda molto quello scelto in passato dalle suffragette.
Un itinerario psicologico che, sempre senza spiegare per non fare spoiler, compie anche Ken (naturalmente, essendo un uomo, Ken affronterà di petto la questione patriarcato).
Tra l’altro Ken è il “protagonista” delle due scene che richiamano due cult movie: “Grease” del 1978 (è peccato mortale non aver visto il musical più famoso della storia del cinema) e “La febbre del sabato sera” del ’77 (idem).
In conclusione, Barbie ci insegna a essere noi stesse, ad accettarci per come siamo, perché ognuna di noi ha insita dentro di sé una bellezza che va al di là del puro aspetto fisico. Una bellezza che sboccia uscendo da quel mondo puerile e perfetto che contraddistingue la nostra infanzia, affrontando la vita e quello che ne consegue, per diventare donne forti e indipendenti. E laddove si decida che la propria estetica sia il motore principale della nostra vita… chi se ne frega! È una libera scelta, in alcuni casi, forse, una scelta piuttosto furba.
Credete ancora che Barbie sia un’oca senza cervello?
Ma soprattutto… donne, vestitevi di rosa e uomini, ossigenatevi i capelli: look d’obbligo per andare a vedere “Barbie” al cinema!
Perché come dice Barbie stessa nel film “Barbie e la magia del delfino” (2017): “Non c’è limite a ciò che puoi fare se credi in te stessa.”.