Instagram
Privacy Policy

La tela del serial killer

Qualche giorno fa ho pubblicato un reel in cui vi illustro un interessante artista cinese che per realizzare le sue opere si serve della polvere da sparo e dei residui di essa dopo lo scoppio (potete vedere quel video cliccando qui).

Ciò che mi ha colpito della sua filosofia, è stata la stretta correlazione tra creazione e distruzione, rappresentate non proprio come due lati della stessa medaglia, ma come due forze imprescindibili che, insieme, creano la vita. Come dicevo nel corso della mia esposizione, la concezione della sua arte è riconducibile alla teoria del Big Bang, che con la sua immensa esplosione ha generato l’universo che conosciamo.

Tutto molto interessante Camilla, ma dove vuoi andare a parare?

Adesso ci arrivo. Questo pensiero che ho sommariamente appena esposto, mi ha portata a riflettere su un argomento a mio avviso curioso e affascinante, che non ha mai cessato di stupirmi e che continuo a cercare di comprendere in ogni sua forma.

Forse, non tutti voi sanno che alcuni serial killer, nel corso della loro prigionia, si sono dilettati con la pittura e con il disegno, producendo lavori rivelatisi poi non solo interessanti dal punto di vista psichiatrico, ma che hanno mostrato, in alcuni casi, un lato artistico innato e talentuoso (passatemi l’aggettivo).

Oggi, vorrei presentarvi un piccolo elenco degli assassini seriali più noti che, durante il loro confinamento, hanno scoperto una vena creativa.

Ma soprattutto, vorrei provare a eviscerare il binomio arte-morte e cercare di capire come sia possibile che queste due parole così agli antipodi, abbiano più cose in comune di quanto si creda. Esattamente come il contrasto tra creazione e distruzione che vi accennavo poc’anzi.

Se vi dico Gacy, chi vi viene in mente? Esatto, uno dei più tristemente celebri serial killer di cui si abbia memoria, conosciuto anche come il Killer Clown.

John Wayne Gacy, infatti, non viene ricordato “solo” per aver rapito, torturato, sodomizzato e ucciso 33 giovani ragazzi, molti dei quali minorenni, ma anche per essere stato un membro attivo della comunità dall’aura pressoché impeccabile, con un alto quoziente intellettivo, la capacità di relazionarsi e specialmente per la sua abitudine a travestirsi da pagliaccio durante le feste di compleanno dei bambini, scegliendo il nome di Pogo il Clown.

La sua ferocia, come quasi tutti gli assassini seriali, scaturiva da un’infanzia difficile (attenzione, ciò non giustifica assolutamente le tragiche azioni commesse), segnata dal bullismo (era un ragazzino sovrappeso) e dagli abusi fisici e psicologici da parte del padre alcolizzato, che additava il figlio come uno “stupido, grasso ed effemminato”. Tale epiteto era istigato dalla natura bisessuale di Gacy.

Il suo primo omicidio avvenne il 3 gennaio del 1972 quando l’uomo, dopo aver ospitato a casa il quindicenne Timothy Jack McCoy per la notte, lo uccise. Secondo la ricostruzione dei fatti, Timothy stava preparando la colazione per entrambi, quando decise di affacciarsi alla porta della camera di Gacy con il coltello con cui stava cucinando: non voleva aggredirlo, aveva semplicemente tenuto in mano la posata dalla cucina. Una banale gestualità, un equivoco che gli costò la vita. Gacy, alzandosi dal letto in modo brusco, spaventò il giovane che fece uno scatto involontario, mettendo falsamente in difesa e in allarme il killer, il quale, dopo una breve lotta, accoltellò ripetutamente al petto McCoy.

Accadde, però, qualcosa di ben più tragico: Gacy ebbe un orgasmo completo durante l’atto e si rese conto dell’immenso piacere che gli procurava uccidere qualcuno. “Fu allora che mi resi conto che la morte è l’emozione più grande.”, furono le sue parole durante le varie perizie psichiatriche.

Lo schema, da lì in poi, si ripeté: attirava i giovani in casa, li faceva ubriacare, ci lottava per gioco, li ammanettava, per poi stuprarli, torturarli e infine ucciderli tramite strangolamento o armi da taglio.

Insomma, quello che fece, sostanzialmente, fu reiterare gli stessi abusi subìti da parte del padre durante l’infanzia, ma in una maniera più estrema, malata e maligna.

Il suo gioco perverso terminò l’11 settembre del 1978, quando le forze dell’ordine perlustrarono la sua casa per cercare l’ennesimo quindicenne scomparso e si accorsero immediatamente del terribile fetore della decomposizione, scoprendo una vera e propria cantina degli orrori, con decine di corpi sepolti in una sorta di grottesca fossa comune sotto l’edificio.

A causa dei suoi atroci crimini Gacy rimase per quattordici anni nel braccio della morte prima di venire giustiziato tramite iniezione letale il 10 maggio del 1994. Le sue ultime parole, prima di morire, furono uno sputo in faccia ai familiari delle vittime in lutto: “Baciatemi il culo!”.

Nel suo periodo di detenzione, tuttavia, Gacy ebbe modo di sorprendere gli psichiatri, dandosi alla pittura. Il soggetto dei suoi dipinti e dei suoi disegni era sempre lo stesso, un clown, ma non un clown qualunque: era Pogo il clown. Autoritratto o raffigurazione di un alter ego? Forse non lo sapremo mai con certezza, poiché i pareri medici erano discordanti. Sta di fatto che, secondo le dichiarazioni di Gacy, che affermò più volte di non trarre alcun profitto dalla vendita dei suoi quadri (molti infatti vennero messi all’asta e acquistati, anche solo per il semplice gusto di essere distrutti dal compratore), le sue opere venivano mostrate per “portare gioia nella vita delle persone”. Una dichiarazione malsana ed estremamente contraddittoria, considerato che oltre a portare dolore, terrore e morte nella vita di chi lo conobbe, il Pogo dei suoi quadri non esprimeva affatto gioia, da un punto di vista oggettivo.

Il pagliaccio mostra sempre un’aria triste e malinconica, con una smorfia che sembra a tratti un sadico ringhio.

La simbologia dietro alla raffigurazione del clown è molto vasta e ricca, da non ricollegare unicamente a John Wayne Gacy o a quello che può essere interpretato come l’altra faccia della medaglia della sua personalità, ma è un elemento che in psicologia viene studiato in maniera approfondita. Scriverò in futuro un articolo incentrato unicamente sul significato dei pagliacci nell’arte.

Un altro “artista sanguinario” fu William George Heirens, che tra il 1945 e il 1946 uccise cruentemente almeno tre persone. Tra di loro, l’ultima vittima, fu Susanne Degnan, una bambina di soli sette anni che lui smembrò e i cui poveri resti furono ritrovati sparsi tra i canali di scolo fognari. Nel suo primo omicidio, ai danni di Jospehine Ross, pugnalò la vittima svariate volte e la decapitò, avvolgendo poi la testa in uno dei suoi vestiti.

Anche in questo caso, non si parla di un’infanzia facile, con una madre che gli donò una visione completamente distorta dei rapporti sessuali. Secondo la biografia di Heirens, quando a undici anni vide due giovani intenti a fare sesso, andò subito a raccontarle l’accaduto, probabilmente per avere una sorta di spiegazione. Ma la risposta materna fu che quel tipo di contatto era da ritenersi ripugnante, un atto sporco, indecente, veicolo di malattie di ogni genere. Questo insegnamento, se così possiamo definirlo, lo impressionò molto e non a caso il suo primo approccio con la sua fidanzatina coetanea, un semplice bacio, fu un’esperienza traumatica che lo fece scoppiare in lacrime e vomitare.

Heirens passò l’adolescenza tra un riformatorio e l’altro, a causa del suo vizio di commettere furti per noia. Nonostante ciò, si rivelò uno studente brillante, tanto da riuscire a iscriversi alla facoltà di Elettronica presso la Univeristy of Chicago, pur non abbandonando le sue illegali abitudini.

Ma esattamente come Gacy, anche Heirens aveva un soprannome: il Killer del Rossetto. Venne coniato in seguito a un episodio occorso con la sua seconda vittima, Frances Brown, che venne trovata nel suo appartamento accoltellata ripetutamente. Ciò che lasciò di stucco gli inquirenti, fu un messaggio sulla parete scritto con il rossetto, che recitava: “Per amore di Dio fermatemi prima che possa uccidere ancora. Non posso controllarmi.”

Durante la sua reclusione, durata dal 1946 al 2012, anno della sua morte per cause naturali, si mostrò un pittore molto abile con la tecnica dell’acquerello. Era sorprendente il contrasto tra la brutalità dei suoi crimini e l’atmosfera calma e pacifica che si respirava nei suoi quadri. I suoi sono scorci cittadini placidi e tranquilli, dall’aspetto molto raffinato e delicato, con un punto in comune (almeno per quelli che ho potuto osservare durante le mie ricerche): il colore giallo.

Personalmente, forse in preda a una sorta di Sindrome di Stendhal, la descrizione che ho appena fatto di queste tele la posso considerare solo come una sorta di facciata, di apparenza, perché c’è qualcosa che mi disturba e che mi mette a disagio nel guardarli. Ed è proprio quella tonalità di giallo che domina incontrastata sulle sue tavole. Una tonalità a mio avviso ai limiti dell’itterico.

Sarà perché ho letto Lovecraft e conosco il Re Giallo o sarà perché è proprio quel colore ad avere qualcosa di strano. Nel panorama artistico, il giallo è un colore associato alla gioia, all’ottimismo, alla ricchezza. Insomma, è un dettaglio molto positivo all’interno di una scena. Ma un altro significato accomunato a questa sfumatura, è la spontaneità legata all’instabilità emotiva. Essa può essere correlata, a seconda del contesto, al tradimento, alla gelosia e alla codardia.

Proseguendo nel nostro macabro elenco, troviamo il serial killer giapponese Issei Sagawa. Non vi parlerò troppo nel dettaglio di costui, perché ho già redatto un articolo sulla sua atroce e cannibalesca impresa, che potete trovare cliccando qui.

Piccolo appunto: la dicitura serial killer non viene usata unicamente per chi ha tolto la vita a più di tre persone con lo stesso modus operandi, ma anche per chi, seppur uccidendone di meno, ha abusato di una violenza tale che va oltre il “semplice togliere la vita”, come la tortura, l’abuso, la perversione e via dicendo. Issei Sagawa fa parte di quest’ultima categoria, avendo ucciso un’unica donna, che tra l’altro lui conosceva bene, decidendo di farla a pezzi e mangiarla.

Incredibilmente, Sagawa non solo rimase libero e felice nel suo Paese d’origine, ma fu anche un artista affermato e popolare, valutato come una celebrità!

In poche parole, nonostante sia stato dichiarato apertamente colpevole del crimine commesso, la  fece franca per via di un ridicolo cavillo legale, fino al giorno della sua morte (24 novembre 2022)!

E i suoi quadri sono stati venduti a prezzi esorbitanti, quindi era per giunta ricco!

Osserviamo però il più iconico dei suoi lavori: una donna nuda, sdraiata sul letto che ci offre la visione della sua schiena e delle sue grazie. Apparentemente romantico, non trovate? Se prestiamo particolare attenzione, tuttavia, ci accorgiamo subito della totale mancanza di empatia e di emozione che trapela da questa tela.

Noi non vediamo il viso della donna, ma solo il suo corpo esposto e vulnerabile, segnato da un contorno forse troppo marcato, da ombre che modellano le sue membra come se fosse fatta di argilla e circondata da quello che sembra il lenzuolo di un letto, ma che non ci fornisce alcun dettaglio del luogo in cui si trova. La protagonista è lei e solo lei. Ma con queste scelte stilistiche, è stata privata di qualsivoglia forma di personalità, di identità, riducendola a un semplice oggetto, un feticcio, una fantasia che va soddisfatta. Per Issei Sagawa, le donne non erano esseri umani, non nella vera accezione del termine. Per lui erano degli strumenti per appagare le sue perversioni.

Un altro caso affascinante (ovviamente da un punto di vista accademico) è quello di Danny Rolling, noto ai più come lo Squartatore di Gainesville, colpevole, nel 1990, di aver stuprato, ucciso e mutilato cinque studenti in Florida. Anche per lui l’infanzia fu particolarmente dura: suo padre, un poliziotto, abusava ripetutamente di lui, confessandogli perdipiù di non essere un figlio voluto.

A differenza degli altri assassini seriali che ho citato finora, però, nel corso della sua prigionia, durata fino al 2006, anno in cui venne giustiziato tramite iniezione letale, i soggetti dei suoi disegni iper particolareggiati sono scene lugubri e macabre.

Vi ho raccontato la storia di pochi assassini, ma ne esistono molti altri, incluso Elmer Wayne Henley, che fornì diverse vittime al pluriomicida Dean Corll, il quale collaborò all’omicidio di alcune di loro e poi, stanco di questa follia, uccise il suo stesso “mentore”. Henley disegnava spesso koala e ritratti, il che è curioso pensando che il koala, in psicologia, è associato a concetti positivi di calma, equilibrio e resilienza. I ritratti, invece, vanno oltre il soggetto, cercando di capire l’essenza del modello.

Oppure Kaith Hunter Jesperson, soprannominato The Happy Face Killer, a causa di una faccina sorridente che disegnava sulle lettere derisorie inviate alla polizia. Altri suoi disegni comprendevano volti inquietanti e sproporzionati, abbinati a oggetti strani e inusuali.

E ancora, il Vampiro di Parigi, Nicolas Claux, che uccise una persona, ma che divenne famoso per i suoi quadri spettrali raffiguranti serial killer noti al pubblico.

E come dimenticare i “graziosi” dipinti fatati di Richard Dadd, nati dalla sua mano durante il soggiorno nell’ospedale psichiatrico criminale di Bedlam, dopo aver ucciso il padre e aver cercato di ammazzare un altro viaggiatore? Potete scoprire più dettagli in merito a costui guardando il mio reel, che potete vedere cliccando qui.

Ma veniamo alla domanda principale di questo articolo.

Cosa c’entra l’arte con la morte? Perché i serial killer diventano improvvisamente pittori e disegnatori?

La risposta vi sorprenderà.

Il criminologo e psicologo Ruben De Luca, autore del saggio “Omicida e artista: le due facce del serial killer”, espone una tesi molto interessante ed esaustiva sull’argomento, asserendo che l’arte e l’omicidio condividono lo stesso processo creativo.

Ragioniamoci un attimo, seguendo una prospettiva puramente logica.

Nella mente di un assassino, per poter uccidere qualcuno, si va a formare una fantasia. Nella sua psiche, egli costruisce un’immagine, un’idea del delitto perfetto. Un’idea che deve necessariamente mettere in atto.

Lo stesso percorso emotivo viene affrontato dall’artista, che sente il bisogno di esprimere ciò che l’anima gli sta urlando da dentro.

Volete una spiegazione ancora più “scientifica”?

Le fasi del processo creativo si possono distinguere in:

  • Fase aurorale: l’artista e il killer si estraniano dalla realtà, in modo da poter elaborare le proprie fantasie nella maniera più dettagliata possibile
  • Fase di puntamento o eccitamento: entrambe le figure, dopo aver completato nella propria mente la fantasia in questione, riemergono nel mondo reale per cercare il proprio oggetto di interesse… o la vittima sacrificale che serve per dare vita all’immaginario
  • Fase seduttiva: l’artista stende una bozza della sua opera, il killer approccia la vittima
  • Fase di cattura o preparatoria: l’artista sceglie con attenzione gli strumenti per concretizzare le emozioni, tra colori, materiale, tela, modelli e via dicendo; il killer sceglie l’arma del delitto, il luogo dove si consumerà l’atto e rapisce la vittima
  • Fase omicidaria o creativa: la creazione e il compimento della propria opera in entrambi i casi
  • Fase totemica: viene osservato il proprio lavoro, traendo il maggior godimento e piacere possibile dal fatto compiuto, magari tenendosi anche un souvenir dell’esperienza
  • Fase depressiva: l’adrenalina comincia a scemare, la monotonia si fa largo nella vita dell’artista e dell’assassino, si sente la mancanza di quel senso di onnipotenza dettato dalla creazione e dalla distruzione, perciò emerge il bisogno di ricominciare. Il ciclo si chiude e ricomincia.

(Fonte: inIUSItinere, Rivista giuridica)

Inoltre, sempre De Luca afferma che esistono quattro tipologie di individui che mescolano l’entità dell’artista e quella del serial killer: il primo tipo è l’artista-serial killer potenziale, che comprende grandi personalità come Dalì, Goya, Bosch e Brueghel. Naturalmente, costoro non hanno mai ucciso nessuno (non che si sappia, almeno), ma le loro fantasie e i loro processi immaginativi raggiungevano livelli di “delirio” paragonabili a quelli degli assassini seriali.

Poi, ci sono coloro che sono attratti dai cosiddetti “geni del male” e dai loro misfatti, tanto da promuoverli a muse ispiratrici. È il caso del pittore, disegnatore e caricaturista tedesco George Grosz con il suo “Il piccolo assassino di donne” o del pittore sempre tedesco Otto Dix, con il dipinto “Scena di Omicidio II”.

Il terzo gruppo, è composto dai serial killer artisti, di cui abbiamo ampiamente parlato sinora.

L’ultimo comprende quegli artisti che sono diventati in seguito assassini, come il grande Caravaggio che tra il 1600 e il 1606 aggredì ben tre persone. Infilzò con una spada un nobile, colpì la testa di un notaio con un’accetta e uccise l’uomo di malaffare Rucci Tommassoni.

Ma, alla fine, come possono creazione e distruzione coesistere sullo stesso piano emotivo?

“Banalmente”, con entrambe si gioca a fare Dio.

Sei tu e tu soltanto che ti elevi a gran sacerdote dell’espressione dell’anima, creando una traccia empatica del passaggio della nostra specie sulla Terra. Così come sei tu e tu soltanto a dichiararti carnefice, colui che pretende di avere il diritto di togliere la vita come più gli compiace.

Dio ha creato il mondo e l’ha poi distrutto per ricominciarlo daccapo.

Ambedue i casi vogliono lasciare il segno nella storia, vogliono essere considerati unici e inimitabili, ricordati ai posteri.

E l’omicidio, in una visione borderline ed estrema, è esso stesso un’arte e un’interpretazione visiva dei moti dell’animo.

C’è chi dipinge il proprio abuso e chi dà forma alla violenza attraverso i colori e l’immagine.

E c’è chi decide di reiterare il trauma subìto sugli altri secondo un principio freudiano di coazione a ripetere.

Ecco perché i serial killer diventano di colpo artisti provetti (chi più o chi meno) soprattutto durante l’incarcerazione, perché non hanno altro modo di sfogare e dare vita alle proprie fantasie, se non attraverso il disegno e la pittura.

E in questo stretto e orrorifico abbraccio tra le due parti, un abbraccio fatto di rovi e di spine che fanno sanguinare, mi sovviene una citazione dell’artista espressionista astratto statunitense Mark Rothko: “Tutta l’arte è in rapporto con la morte”.

E lo stesso Nicholas Cloux, il Vampiro di Parigi, diceva: “[…] l’arte consiste nel dare realtà alle proprie visioni interiori.”

Scritto da Camilla Marino