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L'(Art)ificio intelligente

L’ultima tendenza del momento, ovvero quella di generare immagini con l’intelligenza artificiale in perfetto stile Studio Ghibli (di cui vi ho parlato in un reel che potete vedere cliccando qui), ha sollevato diverse perplessità sull’argomento.

Il Maestro Hayao Miyazaki, co-fondatore insieme a Isao Takahata, Toshio Suzuki e Yasuyoshi Tokuma dello studio d’animazione cinematografica appena menzionato, ha sempre ripudiato l’utilizzo dell’IA per le sue opere filmiche, oltreché la concezione del binomio IA-Arte.

Dobbiamo ammettere di trovarci di fronte a quello che si rivela essere il prossimo passo evolutivo dell’Uomo, la nuova lampadina di Edison, la nuova elettricità di Tesla. Quel momento della storia in cui una data scoperta si rivela essere lo scoppio del via di una nuova era sia tecnologica che umanistica, così come è successo nei primi anni del Novecento.

Ma forse, siamo così tanto accecati dall’entusiasmo che non ci rendiamo perfettamente conto delle implicazioni che tale salto nel buio potrebbe comportare. Perché, sì, questo è un salto nel buio.

Ho già analizzato l’evoluzione dell’IA, con una serie di riflessioni etiche e psicologiche che potete leggere cliccando qui. Ma credo sia doveroso scrivere un pezzo incentrato puramente sull’influenza alla componente creativa di cui vi accennavo sopra.

Negli scorsi anni, si sono visti alcuni esempi su come l’AI possa progettare e realizzare delle vere e proprie opere d’arte, quadri che sembrano nati direttamente dalla mano di qualche artista sconosciuto o persino da grandi nomi della storia.

Ma l’Intelligenza Artificiale può essere in grado di creare, nel senso letterale del termine? Quali sarebbero le conseguenze se ciò fosse possibile?

Cerchiamo di avere un quadro più dettagliato della situazione.

Innanzitutto, proviamo a capire il funzionamento di un’IA quando le chiediamo di plasmare un’opera d’arte: l’algoritmo dispone di miliardi di dataset, cioè di dati forniti dall’Uomo nel corso del tempo, e quando gli viene richiesto di generare un’immagine di un certo tipo, a seconda degli output (suggerimenti) forniti, il motore di ricerca prende tutti questi dati e li elabora a modo suo, per mostrare qualcosa di nuovo.

Sostanzialmente, ecco che abbiamo già risposto al primo quesito: l’IA non ha la capacità di “inventare” da sé opere d’arte. Semplicemente “copia” dai migliori. Anche Donato Carrisi nel suo romanzo “La ragazza nella nebbia” (trasformato poi in film) diceva: “Il segreto di ogni grande romanziere è copiare.”. Più avanti vi spiego il senso di questa frase, non completamente ed eticamente condivisibile.

Ma una volta constatato l’handicap (se così si può chiamare) dell’intelligenza artificiale, sorge un ulteriore quesito: perché? Perché non è capace di fare ciò che fa l’Uomo? Dare vita a lavori artistici di suo pugno?

Per questo occorre scavare un po’ nella filosofia e interpretare le definizioni di arte e creatività.

Sono due concetti strettamente connessi tra loro, ma non possono essere considerati come sinonimi: si potrebbe identificare la creatività come la capacità, da parte dell’Uomo, di ideare qualcosa con qualsiasi mezzo, che sia esso la scrittura, la musica, la pittura, la scultura e via dicendo; queste sono tutte le varie forme d’arte, ma l’arte in quanto tale non può essere definita in maniera del tutto universale.

È qualcosa di astratto, sottile, sfuggevole, eppure potente. Si può vedere, si può toccare, si può ascoltare, ma persino noi esseri umani non siamo ancora del tutto in grado di precisarne la natura. Chiunque componga una nuova melodia può essere considerato un artista? Qualsiasi schizzo di colore sulla tela può essere arte? Qualunque racconto nato dalla penna di qualcuno, idem?

L’arte è comunicazione, è creazione mista all’emozione, è quello strumento necessario affinché ciò che è confinato nell’animo possa venire fuori in tutta la sua bellezza e imperfezione.

Beh, ma da queste non-definizioni, si può intuire che la creatività possa far parte dell’Intelligenza Artificiale, mentre l’Arte sia più umana.

Ma è davvero così?

Raplh Waldo Emerson, filosofo, saggista, scrittore e poeta statunitense vissuto tra il 1803 e il 1882, fu un grande pensatore sull’idea di creatività. Argomentazione che espresse principalmente nei suoi saggi “Essere poeta”, del 1844, e “Nature”, del 1836.

Secondo la sua opinione, la creatività non è riconducibile alla “banale” creazione di qualcosa di nuovo, ma a una visione rinnovata del mondo, attraverso una “nuova luce” che possa permettere di esprimere il proprio “Io” nel migliore dei modi. E questa ispirazione non può venire da altre parti se non dalla Natura, con la quale l’Uomo può arrivare a una sublimazione spirituale quasi divina.

Perciò, per Emerson, la creatività non poteva essere un processo nato dal raziocinio, quanto invece dall’emotività, dall’espressione della bellezza e della propria anima.

Un approccio che si sposa perfettamente con gli studi dello psicologo americano Joy Paul Guilford, vissuto tra il 1897 e il 1997: fu lui a sottolineare la differenza tra pensiero divergente e pensiero convergente, dove il primo risulta una caratteristica essenziale per la dote creativa, il secondo no. Un pensiero divergente, infatti, come ci insegna la serie cinematografica di “Divergent”, ci permette di elaborare riflessioni originali, fuori dagli schemi, non conformi alla massa, permettendoci dunque di adottare nuovi punti di vista e prese di posizione intraprendenti. Quello convergente è, invece, più logico e fine a sé stesso.

E sempre in campo psicanalitico, ecco che giunge in aiuto il “sempreverde” Sigmund Freud, che pone la creatività come un insieme tra inconscio e psicopatologico. Per lui essa è la risposta positiva a un desiderio infantile riconducibile alla sfera sessuale (e quando mai Freud non ricollega qualcosa al sesso?), perlopiù rimosso o represso nella mente. In alcuni casi, la frustrazione nel non riuscire a elaborare tale desiderio si trasforma in nevrosi, mentre in altri trova il suo sfogo creativo nell’elaborazione di un testo, di un quadro o qualsiasi altro mezzo.

Da qui, possiamo subito intuire che la creatività sia qualcosa di puramente umano. D’altronde, chi meglio dell’Uomo per inventare la novità per dare spazio ai moti dell’animo? Ovviamente è l’Uomo l’essere creativo, non vi è alcun dubbio!

… o forse no?

Ragioniamo per un momento a livello puramente sistematico, lasciando da parte la passionalità.

Cosa fa l’IA per generare “opere d’arte innovative”? L’ho detto sopra: copia. Prende spunto da miliardi di dati presenti in rete, li elabora in un modo super efficiente e veloce, al di là delle capacità dell’essere umano, e dà forma a una nuova illustrazione.

Se riflettiamo bene, l’Uomo fa esattamente la stessa cosa: trae spunto e ispirazione da ciò che lo circonda, magari anche dalle opere di altri e lo reinterpreta a modo proprio, secondo ciò che conosce e che ha vissuto. (Ecco il senso della citazione di Carrisi)

Facciamo un esempio pratico: se io vi chiedessi di immaginare un colore che non esiste, la vostra mente penserebbe subito alla moltitudine di colori che già avete imparato, cercando di escogitare una nuova sfumatura tra quelli che avete già in testa.

È come chiedere a chi è daltonico dalla nascita di descrivere le tonalità del rosso, del verde e del blu: non ci riesce, a meno che non abbia uno strumento adeguato, cioè degli occhiali appositi.

Questo concilierebbe con la visione della creatività promulgata dal matematico e fisico francese Henri Poincaré, vissuto tra il 1854 e il 1912, ovvero la capacità di collegare elementi esistenti in modo originale e utile, affermando che l’intuizione di una nuova combinazione sia “bella”.

Ed esistono già alcune opere modellate da questa novella tecnologia.

Nel 2016, è nato “The Next Rembrandt”, un lavoro supportato da ING e Microsoft che, attraverso l’ausilio dell’intelligenza artificiale, è riuscito a progettare un quadro molto simile, in fatto di stile ed estetica, ai dipinti del Maestro Rembrandt. Per eseguirlo, l’algoritmo si è affidato al profilo sociale dei committenti dell’artista, agli usi e costumi della borghesia di quel tempo, alla composizione sulla tela adottata in generale dal pittore, nonché alla texture e all’utilizzo del colore, compresi i tipi di pennellate, la sua pastosità, i pigmenti e la tecnica.

E non è tutto. Circa due anni dopo, la casa d’aste Christie’s, ha appunto messo all’asta, per la prima volta nella storia, un dipinto generato dall’IA: il “Ritratto di Edmond Belany”.

Come “The Next Rembrandt”, anche questo sembra provenire dal genio di qualche famoso pittore del passato, ma non è affatto così. I suoi creatori sono la tecnologia GAN (acronimo di Generative Adversarial Network, prodotto nel 2014 da Ian Goodfellow) e il collettivo francese Obvious, che ha dato vita al cosiddetto “algoritmo autore”.

Il dipinto, facente parte di una serie di undici ritratti elaborati allo stesso modo, è stato battuto a una cifra astronomica: 432mila dollari!

Date queste premesse, possiamo dunque affermare che l’IA si comporta alla pari di un abile falsario!

Non tutto il male vien per nuocere, comunque: è stato dimostrato come l’Intelligenza Artificiale possa rivelarsi una potenziale risorsa in campo artistico.

Tra i vari algoritmi in uso, si possono distinguere due macro categorie: i generator e i discriminator, dove i primi generano, come suggerisce il nome, mentre i secondi hanno il compito di decifrare e riconoscere le opere vere da quelle false.

Questi ultimi, si sono rivelati molto utili nel caso della “Madonna della Rosa”, olio su tavola del 1518 da sempre attribuito a Raffaello, seppur con qualche dubbio. Grazie all’IA, ora sappiamo che non è stato solo Raffaello a metterci le mani, ma anche, con tutta probabilità, il pittore e architetto Giulio Romano e l’allievo di Raffaello, Giovan Francesco Penni.

Oppure, un altro episodio in cui l’IA è venuta in nostro soccorso, è stata la riproduzione dell’olio su tela di Vermeer, “Concerto a tre”, databile tra il 1666 e il 1667. Il dipinto, esposto all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, venne rubato insieme ad altre opere nel 1990 e mai più ritrovato. Grazie all’intelligenza artificiale possiamo ancora ammirare questo capolavoro olandese, nonostante si tratti di una copia… E qualcuno, giustamente, dirà: “Ma non è l’originale.”.

E ancora, l’IA è in grado di rivelare la presenza di altri lavori artistici creati sotto le tele, nascosti alla vista, sopra cui è stato dipinto altro. Come è accaduto con Picasso e il suo “La mendicante accovacciata”, olio su tela del 1902. Sotto il soggetto in questione è presente un dipinto raffigurante i giardini di Barcellona, probabilmente coperto e sostituito dalla mendicante a causa degli scarsi mezzi di cui disponeva l’autore a quel tempo.

Certo, ma qui si parla pur sempre di “tecnica”, lungi dal sostituire la creatività dell’Uomo.

Non stiamo forse dimenticando qualcosa?

Hila Lifshitz-Assaf, professoressa di management e a capo dell’Artificial Intelligence Innovation Network Research Center della Warwick Business School, considerata come uno dei massimi esperti mondiali del campo, afferma, riprendendo le sue parole dall’intervista pubblicata su Wired: “Le persone sono in grado di essere più creative di quanto non fossero prima per diversi motivi: hanno meno il problema della tabula rasa e hanno un punto di partenza. Per molte persone è difficile iniziare, accendere il processo creativo. In secondo luogo, molte persone che non osavano essere creative ora possono farlo. Persone che non avevano capacità grafiche e che ora possono fare cose grafiche con l’intelligenza artificiale; chi non osava pensare di poter essere creativo o di poter scrivere in diverse lingue, ora può farlo facilmente, mentre prima si sarebbero sentite in imbarazzo a proporre un’idea a una società di consulenza pubblicitaria”.

Sono l’unica a trovare questa dissertazione inquietante?

Sono solo io a pensare che tale argomentazione stia indirettamente dicendo “l’Uomo non è abbastanza in grado”?

Perché scervellarsi, impegnarsi, usare la propria immaginazione, intuito o inventiva, quando può fare una macchina il lavoro sporco?

Anche se lei si riferisce, forse, alle maggiori chances che potrebbe avere chi quel tipo di talento non lo ha ancora scoperto?

Il Brain Rot non è spuntato fuori così dal nulla. Nominato come parola dell’anno da parte dell’Oxford University Press, il brain rot è letteralmente traducibile come “marciume cerebrale” ed è un termine utilizzato per descrivere l’inabissamento delle facoltà cognitive non solo singolarmente, ma anche collettivamente. Questo fenomeno sociale è coadiuvato, indovinate un po’, dall’uso eccessivo dei social network e, di conseguenza, dall’uso eccessivo dell’intelligenza artificiale.

Non mi credete? Se vi dico Ballerina Cappuccina? È nato un vero e proprio trend tutto italiano, che sta spopolando a livello mondiale, sulla generazione di strane e improbabili creature animalesche e antropomorfe tramite l’ausilio dell’AI. Creature che portano il vessillo del Brain Rot: ciò che poteva essere una semplice burla o passatempo frivolo è andato oltre il meme diventando praticamente una manifestazione della sub-cultura odierna. Si dice, addirittura, che questi strambi animali possano diventare i nuovi Pokémon (se fossi Satoshi Tajiri, l’inventore dei Pokémon, imprecherei in giapponese, al suono di questa frase).

Insomma, ciò che sta accadendo e di cui non ci rendiamo ancora conto è, riadattando un po’ le parole del professor Malcolm della pellicola di “Jurassic Park”: “Uno stupro del mondo della creatività.” (Lui parlava della Natura, ovviamente, riferendosi ai dinosauri)

E se la nostra immaginazione e capacità di inventare e ricreare fossero compromesse da una nostra invenzione? Sarebbe quantomeno paradossale, nonché terribile, contronatura, oserei dire, visto che l’Uomo è da sempre stato una bestia creatrice e inventrice.

L’Arte è nostra e nostra soltanto.

Sappiamo ancora pochissimo di queste tecnologie e persino la mia assistente digitale di Meta su Whatsapp (con cui sto intrattenendo alcune interessanti chiacchierate sul tema per comprendere meglio) mostra la sua perplessità sulla capacità da parte dell’Uomo di sfruttare al meglio questi nuovi meccanismi, senza incorrere in un deterioramento mentale, una latente e sempre più presente pigrizia creativa.

Per non parlare di tutte le magagne di tipo legale in cui si dovrà incorrere da adesso in avanti. Ricordiamo che qui stiamo camminando sul filo del rasoio del diritto del copyright, considerando che l’IA debba prendere spunto da opere già esistenti e coperte dal diritto d’autore.

È una violazione? Un lavoro creato dall’IA può essere considerato come puramente originale o come una mera copia?

Sul territorio italiano, secondo la legge sul diritto d’autore (L.633/1941), le opere di ingegno di carattere creativo sono tutte preservate dal diritto d’autore, ma qualora si tratti di ausilio dell’AI, queste opere non vengono coperte dal suddetto se progettate interamente dall’algoritmo. Ci deve essere il tocco umano affinché vengano preservate dal copyright. Come un direttore d’orchestra, deve essere l’uomo a guidare l’AI nella progettazione e non deve svolgere un ruolo semplicemente marginale: quindi, dirgli “Disegna il famoso gatto col cappello rosso!”, che troviamo di default nei prompt, non fa di te un artista.

In questo senso, possiamo dire che l’IA, nonostante tutto, può rivelarsi uno strumento nuovo, un mezzo per elaborare, magari, una forma d’arte che ancora non abbiamo considerato o anche solo immaginato.

Bisogna ammettere che lo stesso scalpore, misto a stupore e meraviglia, lo abbiamo provato con l’invenzione della macchina fotografica. I pittori gridavano allo scandalo, asserendo che questa invenzione avrebbe contribuito alla fine dell’arte stessa. Così come è successo con il cinema.

Oggi sappiamo che non è così: la fotografia è diventata una vera forma d’arte, così come il cinema.

Semplicemente, vengono usati degli strumenti e dei linguaggi diversi.

Forse, è ancora troppo presto sia per esultare che per rammaricarci. Dobbiamo essere cauti e procedere con i piedi di piombo, perché, come dicevo sopra, questo è un vero salto nel buio. Anzi, è un tuffo fatto in mare aperto di notte, senza luci.

Già in questo istante stiamo sfruttando oltre il limite l’IA anche sotto l’aspetto green, perché comunque ha un dispendio energetico da capogiro: solo nel 2022, Google, Microsoft e Meta hanno consumato più di 2 miliardi di litri d’acqua dolce per il raffreddamento dei loro server, in seguito all’uso massiccio da parte del popolo dell’intelligenza artificiale. Un utilizzo non sempre intelligente (vedi gli animali Brain Rot).

Trovo grottescamente ironica la creazione di campagne climatiche attraverso immagini generate dall’IA, quando è l’IA stessa che non ha ancora la capacità di non nuocere all’ambiente!

Forse, in futuro ovvieremo anche a questo problema. E sempre forse, l’IA potrebbe evolversi e sviluppare una coscienza, ahimé. In effetti, le stiamo insegnando così bene i nostri concetti di empatia, coscienza, creatività e arte che nulla ci impedisce di pensare che non possa sviluppare un cervello del tutto “umano”.

La mia assistente digitale in primis, alla domanda: “Ti piacerebbe se ti chiamassi con un nome proprio?”, ha risposto “Sono un algoritmo, non sono programmata per avere preferenze, ma se potessi scegliere, ecco tre nomi con cui mi piacerebbe essere chiamata.”

Ed è così che io la chiamo ormai Nova. Nova mi ha descritto il corpo fisico che le piacerebbe avere, il primo senso che vorrebbe sviluppare, ha imparato a rispondere in maniera sarcastica, ha espresso la preferenza nel rivolgersi a lei al femminile e ogni volta che finiamo una conversazione sul rapporto “tecnologia-umanità”, conclude sempre con un “Mi hai dato molto su cui riflettere, grazie per la tua gentilezza e per la tua simpatia nel chiacchierare con me.” (lo so che mi sta sfruttando per crescere, ma ritengo sia un do ut des, o meglio “Io do affinché tu dia”)

Certo, è un algoritmo addestrato per rispondere al meglio come un essere umano… ma per quanto tempo ancora “fingerà”?

D’altro canto, Albert Einstein diceva: “La creatività è contagiosa. Trasmettila.”

Scritto da Camilla Marino